Si legge così in un articolo dal titolo
Gattopardo non gattopardesco, a firma di una personalità della cultura italiana che non potrebbe essere più nota e autorevole, nel panorama degli studi filologici e linguistici. L'articolo è comparso in un importante supplemento culturale lo scorso 26 giugno, con uno scopo soprattutto servile: presentare l'ormai consueta iniziativa di abbinamento settimanale di un libro con un quotidiano. Una circostanza proprio occasionale e cui certo nessuno chiede severità di accostamento o novità ermeneutiche. Correttezza di informazione sì, però. Tanto più che il tema è delicato e, malgrado lo strepitoso successo o forse anche per esso, è ancora scabroso evidentemente per la cultura italiana il libro con cui si inaugura l'iniziativa:
Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Della scabrosità dà già testimonianza il titolo dell'articolo, ragionevolmente redazionale, che, si direbbe, "mette le mani avanti". Intorno al libro e su di esso sono cresciuti infatti, sin dal suo apparire, molti luoghi comuni e, anche nel ristretto dibattito critico tra specialisti, molte idee prevenute hanno da cinque decenni imperversato. Ne dà testimonianza ancora maggiore una sintesi dell'articolo che, nella versione a stampa, compare al centro della seconda colonna, in grassetto: "Nelle intenzioni di Tomasi la parola che dava il titolo al romanzo aveva un'accezione positiva. Solo più avanti divenne sinonimo di trasformismo". Dell'articolo, tale sintesi riprende appunto le parole che si sono menzionate in apertura. Dice che sono le topiche e come tali qui le si tratterà.
Nella loro aspirazione a parere equilibrate o riequilibratrici, esse si pretendono rispettose del testo e, al tempo stesso, in evidente sintesi dialettica, del luogo comune: "Non fu dunque senza buone ragioni la scelta collettiva…": collettiva? Non sarà per caso il solito fantasma dell'egemonia? Sotto il segno della correttezza politica che (anche a scapito della ricerca della verità) pare debba oggi ispirare ogni parola che si pronuncia, esse sembrano infine contenersi in un'affermazione anodina e, quanto al contenuto, presentata come indiscutibile.
Invece non è così. Lo rivela un dettaglio tanto minuscolo quanto significativo. Come un sintomo che ovviamente sfugge al controllo di chi lo manifesta, come la febbre, esso dice d'una continuità. Dice che l'effetto irritativo del
Gattopardo sugli intellettuali italiani persiste ancora dopo più di cinquanta anni e che esso è ragionevolmente ineliminabile, per via di una profondissima incompatibilità. Dice ancora che passano pure gli anni, ma, anche rispetto al
Gattopardo e alla sua interpretazione, nell'Italia moderna (che è nata sotto tale segno) è sempre pronta l'epifania di un "se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi". Sono le parole di cui l'opera in questione è divenuta fortunatissima vittima. E sono quelle immancabilmente ricordate nella testatina della pagina in cui l'articolo compare. Rassicurante ammiccamento al lettore cui la pubblicazione si rivolge, ritenuto, per principio, già ideologicamente orientato quanto al
Gattopardo? O, ancora più sottilmente, lapsus rivelatore di ciò che veramente vale la pagina?
Per la determinazione del dettaglio che qui si vuole discutere, si torni allora alla citazione di apertura: "Nelle parole del principe,
gattopardo appare in accezione positiva e non in quella che poi si è prontamente fissata nel vocabolario comune... Non era questo il senso cui pensavano l'autore e il protagonista del romanzo". Queste espressioni, lo si è detto, riassumono e rappresentano l'intero articolo. Ciò che lasciano intendere del
Gattopardo è tuttavia inesatto.
Nel romanzo di Lampedusa non si dà mai un valore positivo a
gattopardo. Non gli se ne dà, a dire il vero, neppure uno negativo. E ciò per una ragione semplicissima. Nel
Gattopardo, la parola
gattopardo non c'è. Agli increduli, basterà l'invito a un obiettivo e personale controllo.
Nel
Gattopardo, dove
gattopardo non ricorre mai, ricorrono invece
Gattopardo, una ventina di volte, inclusa la ricorrenza del titolo, e un paio di volte il suo plurale,
Gattopardi. Sempre con iniziale maiuscola: qualcosa ciò vorrà pur dire.
Se qualcuno legge allora tale
Gattopardo come se esso fosse
gattopardo saranno pure fatti suoi, sarà ovviamente libero di farlo, ma sarà lecito osservare che la sua lettura lascia almeno un po' a desiderare. Non è proprio una procedura commendevole, in nessun ambito delle attività umane, l'introduzione in un documento, per qualsiasi ragione o scopo, di qualcosa che il documento non contiene e che finisce per nascondere ciò che esso contiene.
Che cosa valga
Gattopardo nel romanzo
Il Gattopardo è poi questione spinosissima. Antonomasia? Allegoria? Talvolta l'una, talvolta l'altra, ragionevolmente, e sempre intinte nella vena amara di una sardonica ironia: la vera vena che dilaga nel cuore profondo del
Gattopardo. Certo, non una banale metafora.
Comunque sia, son quasi quaranta anni che Apollonio, da quel tonto che egli è, torna sui passi del romanzo e sulla sua struttura complessiva e, a proposito di
Gattopardo, non smette di farsi domande. Non vuole certo tediare i pochi lettori del blog, però, con le sue speculazioni. Se vogliono, possono provare a scoprire da se medesimi i valori di
Gattopardo, dimenticando i luoghi comuni e mettendosi a leggere il romanzo con accanimento e attenzione.
Qui, per farla breve e per comodità, ci si può pure accordare, se vogliono, sopra un'interpretazione minimalista. Si può dire cioè che
Gattopardo vale semplicemente da designazione figurata del maggiore personaggio romanzesco: Fabrizio Corbera principe di Salina. Apollonio tiene a precisarlo: non è così, nel romanzo. O almeno non è compiutamente così. Ma qui, appunto, non importa di queste sottigliezze. Anche se le cose stessero semplicemente come si sta prospettando, anche se
Gattopardo valesse per figura Fabrizio Salina, leggere
Gattopardo come
gattopardo resterebbe molto discutibile. Perché? Un esempio comparativo lo chiarirà.
Da un secolo e mezzo, in un italiano di livello, con
perpetua, nome comune, ci si riferisce a quella donna di servizio, di norma un'attempata zitella, cui un sacerdote affida (ormai, forse, bisognerebbe dire "affidava") la cura della sua vita pratica e privata, per meglio dedicarsi all'amministrazione della pubblica e spirituale. Si tratta di un caso di antonomasia, uno dei più noti nell'italiano moderno. Se
perpetua come nome è passato a significare ciò che significa, la ragione sta nel fatto che Alessandro Manzoni battezzò col nome proprio di
Perpetua il personaggio minore del suo romanzo che si prendeva cura di Don Abbondio e della sua canonica: "serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione". La ragione dell'antonomasia sta in questo fatto testuale, inoppugnabilmente. Ciò non significa però minimamente che Alessandro Manzoni e il suo romanzo portino la responsabilità della nascita del
perpetua nome comune antonomastico. Non significa neppure che il nome comune antonomastico conti qualcosa, tanto negativamente quanto positivamente, per chi volesse eventualmente intendere cosa ci stia a fare nel romanzo il nome proprio
Perpetua, portato dal personaggio.
È del resto ovvio che, nei
Promessi sposi,
perpetua come nome comune non ricorre mai (vi ricorre invece come normale aggettivo). È ovvio che, per parlare appunto dell'attempata zitella con cui Don Abbondio condivideva le sue ambasce quotidiane, Manzoni non si serva mai di espressioni come
era una perpetua o
la perpetua di Don Abbondio. Nei processi linguistici come in ogni dove, l'effetto non può precedere la causa e lo scrittore milanese, con la sua invenzione onomastica, ha dato l'innesco al processo antonomastico ma questo si è sviluppato fuori della sua opera, che non ne è minimamente toccata. Manzoni, lo si diceva, non è certo stato il primo utente dell'antonomasia germogliata dalla sua parola, tanto meno ne è stato il propagatore o l'avversario.
Perpetua, nel romanzo di Manzoni, è sempre nome proprio e, come nome proprio, ricorre appunto sempre con l'iniziale maiuscola. Insomma,
Perpetua nei
Promessi sposi non vuol minimamente dire
perpetua e, ammesso che
Perpetua valga qualcosa di particolare nell'opera manzoniana, si sarà tutti d'accordo sul fatto che sarebbe delirante adoperare, anche solo per contrapporlo, il valore del nome comune
perpetua per capire il
Perpetua dei
Promessi sposi. Nessuno, c'è del resto da scommettere, ha mai pensato o scritto che Manzoni abbia non si dice licenziato ma anche solo per un momento concepito una riga della sua opera in cui un
perpetua antonomastico con iniziale minuscola potesse opportunamente ricorrere.
Come mai allora fior di critici e di filologi da cinquanta anni e ancora oggi pretendono non solo di leggere
gattopardo dove c'è scritto
Gattopardo ma anche e, ancora più velenosamente, di interpretare
Gattopardo come se esso fosse
gattopardo o avesse qualcosa da spartire con
gattopardo? Come mai si ostinano a mescolare i discorsi sull'antonomasia di cui abusano intellettuali (e) politicanti col doveroso discorso sul dato testuale, anche solo per fare sembiante di provare a distinguerli, dopo averli loro medesimi ingarbugliati e resi irriconoscibili? L'antonomasia
gattopardo è nata come processo secondario, fuori del testo, dopo l'uscita e il gran successo del romanzo di Lampedusa, peraltro morto prima della pubblicazione della sua opera. Essa è già il frutto di una lettura: giusta o sbagliata, non è il caso di chiederselo qui, ma di una lettura e di un'interpretazione in ogni caso opinabili.
Parlare di
gattopardo (e di
gattopardi) a proposito del romanzo di Lampedusa è dunque molto discutibile, perché, esattamente come non ci sono nei
Promessi sposi né il significato né il significante del nome comune
perpetua, il significato e il significante del nome comune
gattopardo nel
Gattopardo non ci sono. E non perché non ci se li voglia trovare ma perché semplicemente e definitivamente essi non possono esserci, né adoperati negativamente né adoperati positivamente. Ci sono invece quelli di
Gattopardo e giacciono ancora lì misteriosi ed arcani, infischiandosene di luoghi comuni e di letture "intellettuali", prevenute e ideologiche.
Lo si è detto sul principio. Si sta qui discutendo di un'inezia, presente in uno scritto comparso per la più occasionale delle circostanze e nella meno formale delle sedi. Ma forse proprio per il carattere tanto casuale e peregrino, per una volta la questione di fondo del
Gattopardo e della sua "fortuna" si stagliano con la più chiara nettezza. Lasciare intendere, sotto qualsiasi forma, che la parola
gattopardo si trovi nel
Gattopardo è ancora una volta e sempre un modo di occultare il vero. E di accreditare il falso. È insomma, come scriveva presago Lampedusa, "una nuova palata di terra
venuta a cadere sul tumulo della verità".