26 gennaio 2013
22 gennaio 2013
Farse in due battute (10)
"...e non sei stupido fin quando qualcuno non ti giudica stupido".
"Fosse vero, caro signor mio, fosse vero...".
21 gennaio 2013
"Nella vita degli imperatori..."
"Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l'imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore. Nella vita degli imperatori c'è un momento, che segue all'orgoglio per l'ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l'odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola uno sull'altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in sconfitta, e scrosta la ceralacca dei sigilli di re mai sentiti nominare che implorano la protezione delle nostre armate avanzanti in cambio di tributi annuali in metalli preziosi, pelli conciate e gusci di testuggine: è il momento disperato in cui si scopre che quest'impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d'un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti".
Le città invisibili s'apre con la negazione d'un passivo senza agente di dire che, idiomaticamente, vale come presa di distanza dell'enunciatore da ciò che sta enunciando: un fenomeno di quella categoria che, nelle grammatiche delle lingue (di norma esotiche) ove passa per manifesta, viene designata come "evidenzialità".
E s'apre coi due protagonisti, alla pari, alla terza persona, sebbene l'uno preceda l'altro, non solo nell'ordine sintagmatico, ma anche nella gerarchia ipotattica. Kublai Kan funge infatti da soggetto della subordinata di primo grado che ingloba come argomento il pronome cui si attacca la subordinata relativa in cui finalmente Marco Polo compare come soggetto di dire.
Del resto, la parità dei due sotto il segno della non-persona (la terza fu così acutamente definita da Benveniste) è rivelata subito apparente e il brano, il primo della cornice di quest'opera al tempo stesso asciutta e magnificente, ha anch'esso una cornice, costituita dal primo e dall'ultimo periodo: i due soli caratterizzati dai protagonisti, e nel caso specifico da Kublai Kan, alla terza persona.
Nel cuore, tutto uno scorrere della cosiddetta prima plurale. Sanno i suoi cinque lettori quanto Apollonio non ami il "pronome di vigliaccheria" (definizione di Manganelli) ma eccone una pratica, peraltro nel suo altrove miserabile - e pericoloso - valore inclusivo, eccone una pratica, si diceva, che scioglie quell'odio e mostra come non c'è veramente nulla, nella lingua, che la probità, o meglio quel probo commercio linguistico della falsità rappresentato per antonomasia dalla letteratura, non sia capace di riscattare dalle infamie che quotidianamente se ne fanno.
E nel cuore di questo incipit, con il 'noi' che getta la comune croce dell'umanità su chi legge e su chi scrive, c'è la lampante rivelazione che è sempre la lettura, l'ascolto, è sempre il "re in ascolto" la prospettiva profonda di Italo Calvino, come la gerarchia ipotattica della preterizione d'esordio ha sottilmente già lasciato intendere.
L'espressione di Calvino come scrittore fu pretesto per la sua espressione come lettore (di se stesso). E non è detto che il lettore Kublai Kan abbia creduto allo scrittore Marco Polo mentre lo ascoltava con curiosità e attenzione.
Del resto, è solo occasione per il suo proprio ascolto l'espressione d'un essere umano saggio e consapevole, come istintivamente saggio e consapevole egli pare nel momento in cui viene esplicitamente al mondo e, per dare un segno al suo orecchio della sua esistenza, s'esprime nel pianto.
L'ascolto si esercita dubbioso, se non incredulo, con un'espressione che gli ritorna. Per aprirsi così poi "disperato" alla altrui, con solidale compassione per lo sfacelo, la corruzione, la rovina e l'imbroglio di cui, nascendo, noi si è divenuti orgogliosamente e felicemente eredi.
Noi, cioè lui che l'ascolto della comune espressione appende a una filigrana tanto sottile da far coltivare l'illusione che, ingannando per quanto sia possibile il tempo, essa sfuggirà al morso delle termiti.
17 gennaio 2013
A frusto a frusto (39)
Nel verso della vita, qualche mobile cesura, qualche cadenzato accento. E inizio e fine come valori forti.
16 gennaio 2013
Allievo
Chissà se Apollonio terrà fede alla promessa strappatagli tempo fa dall'emozione di sapere morto (e d'improvviso) Francesco Orlando. Promise, con l'amara ironia dettatagli dalla luttuosa circostanza, che sarebbe tornato a scriverne. Non perché - come coloro che hanno contribuito a un recente volume di testimonianze e ricordi dell'illustre studioso palermitano - lo avesse frequentato intensamente. Forse proprio per la ragione opposta.
Non è questa ad ogni modo la circostanza. E vedranno i cinque lettori che, alla fine, sarà più lesto, in proposito, il suo alter ego a tirare fuori uno dei suoi soliti scrittarelli con pretesa di saggio.
Qui del resto solo una noticina a margine del menzionato e peraltro benemerito volume che porta quasi ottanta firme (e molte molto illustri) e che nella premessa del giovanissimo curatore, di studi pisani, tiene a informare il lettore che tra i molti titoli di merito di Orlando c'era quello d'essere stato "allievo di Tomasi di Lampedusa, Pizzorusso e Auerbach".
Erich Auerbach muore, in una cittadina statunitense, nel 1957: due anni prima del momento in cui Orlando, dalla natia Palermo, sbarca a Pisa, per intraprendere i suoi studi letterari. Certo, negli anni a venire, Orlando sarebbe divenuto un accanito lettore e un grande estimatore dell'opera di Auerbach. Se ciò bastasse però a dir qualcuno allievo di Auerbach, grande sarebbe il numero di coloro cui, per lode o biasimo, si potrebbe attribuire tale titolo e infinito quello di coloro che potrebbero esser detti allievi, poniamo, di Platone.
Più solida parrebbe la ragione per cui di Orlando si può dire sia stato allievo del francesista Arnaldo Pizzorusso. È indubbio: ci sono di mezzo delle tesi universitarie. Nel suo breve testo commemorativo presente nel volume, Pizzorusso si limita tuttavia a definire Orlando (e proprio tra virgolette) uno "studente d'eccezione". Certo, per elegante discrezione. Ma forse anche perché allievo, come maestro, nell'accademia è, nell'uso predicativo, parola impegnativa, non solo per chi ne è soggetto ma anche per chi ne è complemento.
Resta il caso di Tomasi di Lampedusa e, come sempre quando si tratta del principe siciliano, si entra nel mito. Come la citazione del resto dimostra, allievo è parola che aveva e ha ancora gran corso a Pisa, città accademica per eccellenza, in Italia, e anche per questa ragione luogo eletto da Orlando, in fuga non solo materiale da Palermo, a sua patria ideale. Allievo fu parola certo largamente adottata, come professore d'università, dallo studioso, cui negli scritti capitò (se così si vuol dire) di riferirsi al suo anziano e defunto amico come a un "maestro".
Chissà però se allievo e maestro sono parole appropriate per dire dell'asimmetrica relazione tra il maturo principe e il ragazzo di belle speranze nella Palermo del Dopoguerra. Chissà se, pur restando nella medesima lingua ma passando attraverso il gergo accademico e i suoi impliciti, non si tratti di traduzioni che praticano senza darlo a vedere il tradimento. Chissà se bastano a dire che per un sofisticato gioco di società, certo per rappresentarsi e forse anche per incoercibile bisogno di esprimersi il primo esibiva davanti al secondo gli esiti, altrimenti solo interiori, della furia di un lettore di mero diletto. E della generosa cattiveria di tale esibizione. Dei trucchi, delle trappole, delle ingenuità reciproche e delle reciproche furbizie. "Bisogna sempre lasciare gli altri nei loro errori", pare fosse il succo dell'attitudine didattica di Lampedusa, come riferì senza celare la sua inquietudine proprio Francesco Orlando. Il topo, anche quando gli sia sopravvissuto, si dirà allora allievo del gatto?
"Suvvia!" - stanno pensando i cinque lettori - "È una delle solite stupide pedanterie. E a qual pro? Cosa vuole questo sciocco organista di Donnafugata? Il concetto è chiaro. Le cose stanno come stanno, perché andarono come andarono: e Francesco Orlando si disse e fu allievo di Lampedusa".
Sarà. Ma trovare le parole giuste per dire le cose è importante tanto quanto trovarle per camuffare o per nascondere le cose. E forse anche per l'aria non troppo solida delle altre due attribuzioni, quell'allievo pare ad Apollonio l'ennesima, minuscola palata di terra destinata a seppellire il cadavere di una peraltro già più volte seppellita verità e di cui, feroce, il Gattopardo, non Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si badi bene, ma il Gattopardo sta certo sardonicamente sorridendo.
15 gennaio 2013
12 gennaio 2013
Numeri (3): Punti e a capo
Per meno di un'ora.
Sì. Per meno di un'ora.
Hanno capito bene i cinque lettori.
Apollonio ha atteso un volo per meno di un'ora.
Era solo qualche giorno fa.
Non gli è così mancato il tempo.
Si è appoggiato a una colonna.
Era nella solita e generosa libreria aeroportuale.
Ha letto un libro.
Per intero.
Lento, ha sfogliato le pagine.
Una ad una.
Tra le mani, il più recente prodotto di una penna prodigiosa.
Il tuttomio di Andrea Camilleri.
"Romanzo", si precisa nel frontespizio.
"Romanzo", si precisa nel frontespizio.
L'opera ha un tratto saliente.
Un tratto saliente di scrittura, qui si intende.
È il punto e a capo.
Anni fa, del punto e a capo, Alessandro Baricco aveva fatto lo stigma del suo stile.
Apollonio ricorda.
Altre letture in altre librerie aeroportuali.
Il punto e a capo, ora, Camilleri lo riprende e lo reinterpreta.
E la sua mano è inconfondibile, nel largo dosaggio del punto e a capo.
Le generazioni a venire si interrogheranno a lungo sulla questione del punto e a capo di Baricco e del punto e a capo di Camilleri.
C'è da crederlo.
Chi ne ha fatto l'uso più accorto?
Arcana è infatti la funzione stilistica del punto e a capo, nella scrittura dei due autori.
Misteriosa, profonda e allusiva è certo la ratio compositiva che ne rende necessaria una sì grande copia.
Apollonio avanza un'ipotesi.
Pagine semibianche, forse simboliche quasi ad ogni riga del precipitare delle loro opere.
Dove?
Verso il profondissimo vuoto del nulla.
[E, come ipotesi non necessariamente alternativa, un "Nome, non me" di qualche tempo fa.]
[E, come ipotesi non necessariamente alternativa, un "Nome, non me" di qualche tempo fa.]
Cronache dal demo di Colono (8): Da Giobbe a Paperino
Non più sorda, è certo la frustrazione di chi l'ha scritto ad affiorare nel brano di prosa qui raggiungibile.
L'onda di una rete sociale, con qualche approvazione, ne ha portato la notizia sulla spiaggia di Citera, quasi fosse il relitto di un naufragio. E proprio di un naufragio si tratta: quello di una figura professionale e di un profilo sociale che un dì avrebbero forse permesso (ma Apollonio inclina a escluderlo) che chi se ne vestiva pensasse cose del genere dei propri discenti; gli o le avrebbero tuttavia impedito di manifestarle; e di manifestarle sotto forme di così sconcertante trasparenza, quanto alle fonti, culturalmente condivise, di un immaginario e della lingua che lo esprime.
Da Giobbe a Paperino: per chi appropriatamente la cerca nella malasorte, ecco la sintesi emblematica dell'accademico declino.
7 gennaio 2013
A frusto a frusto (37)
Donde venga agli esseri umani la parola e cosa essa sia, nessuno lo sa. Attendersene un uso probo sarebbe certamente troppo ma muove al riso (mentre atterrisce) vedere come ci se ne serva e la si manipoli senza cautela e responsabilità.
6 gennaio 2013
Farse in due battute (9)
"Gente di riguardo, stasera, e oggettivamente di merito. Vorrei far bella figura. Cerco qualche buon dato quantitativo..."
"E non poteva capitare meglio. Qui, gran rinomanza e qualità assicurate. Qualcosa di tendenza... che so, del Global Warming? O forse... mi lasci indovinare. Professore! Ah, allora ci si potrebbe orientare verso l'Academic Ranking of World Universities... troppo caro? Capisco. Quanto vuol spendere? Beh, se si tratta solo d'una valutazione comparativa, Le consiglio magari un Impact Factor. Meno impegnativo, più informale. E poi va bene praticamente con tutto: ha preferenze per l'annata? Insomma, dica Lei. Dipende da cosa vuol dare da bere ai Suoi ospiti".
Farse in due battute (8)
"Mi scusi. Un'indicazione, per favore: costì, dove sta la verità?"
"Guardi, è facilissimo. Vede la mia coda di paglia? Bene. La segua fino in fondo".
5 gennaio 2013
Di nuovo, realismo
Basta con le illusioni, diamine! La filosofia, lo si sa, è deboluccia di pensiero ma ci sarà pure qualche fatterello col quale la poverina "può tornare a misurarsi".
3 gennaio 2013
Linguistica da strapazzo (9): Giovanni Rana e la cosiddetta apposizione
"Sono Giovanni Rana, proprio quello dei tortellini...": comincia così un piccolo film che, con la paciosa enfasi del caso e la necessaria presenza di qualche matterello, i consulenti d'immagine dell'industriale veneto dell'alimentazione hanno concepito, a scopi di comunicazione commerciale, come celebrazione del suo successo.
Nel film si racconta quanta strada Giovanni Rana abbia dovuto percorrere, quanto abbia dovuto lavorare per potersi permettere di dire, nella prima scena di quel film, "Sono Giovanni Rana, proprio quello dei tortellini..." e non "Sono il fornaio, il pastaio, l'industriale, il commendatore all'Ordine del Merito della Repubblica italiana, il cavaliere del lavoro Giovanni Rana", espressioni che gli saranno state senza dubbio necessarie e gli saranno venute naturali in altri momenti, in altre occasioni della sua vita.
Perché hanno un bel dire i grammatici che, come "proprio quello dei tortellini", il fornaio, il pastaio, l'industriale, il commendatore all'Ordine del Merito della Repubblica italiana, il cavaliere del lavoro, messi lì a precedere il nome proprio Giovanni Rana, ne sarebbero semplici apposizioni; hanno un bel dire che il nocciolo delle relative ed eventuali espressioni complesse starebbe in ogni caso nel nome proprio. La misura del successo di Giovanni Rana è data infatti con esattezza dal fatto che, nell'occasione, egli possa, se non debba dire "Sono Giovanni Rana, proprio quello dei tortellini...", senza far ricorso a nomi comuni preposti al suo proprio. Se tali presunte apposizioni ricorressero, oscurerebbero il nome proprio e svilirebbero di conseguenza chi se ne veste: il caso lo mostra in modo lampante.
Questa evidenza comunicativa ha del resto una corrispondenza precisa nel sistema funzionale della lingua, cui la nozione di apposizione non rende giustizia, se riferita ai casi di il pastaio Giovanni Rana o di il ministro Corrado Passera. Tali nessi sono infatti integralmente costruiti intorno ai nomi comuni pastaio e ministro, che vi fungono da veri e propri nuclei della composizione. Pastaio e ministro sono dunque lungi dal giocarvi il ruolo di supplementi descrittivi giustapposti al nome proprio, per condivisione di riferimento, come potrebbe lasciar credere la nozione di apposizione che viene loro applicata corrivamente. È al contrario il nome proprio che, sorta di attributo onomastico, viene loro riferito ('il pastaio (che si chiama) Giovanni Rana', 'il ministro (che ha nome) Corrado Passera') e che impone all'insieme la presenza di un articolo determinativo, come capita del resto anche nel caso di altre modificazioni qualificative e di altre specificazioni.
Pastaio e ministro ne risultano così tanto determinati dall'articolo quanto specificati dal nome proprio: altro che banali apposizioni! Nel caso di il pastaio Giovanni Rana o di il ministro Corrado Passera, banale e, a volerla dir tutta, nemmeno indispensabile, come modificazione supplementare del nesso, potrà risultare, il nome proprio, non la presunta apposizione.
Si capisce così quanto impegno abbia dovuto mettere Giovanni Rana per fare salire il suo semplice nome proprio su per la china delle gerarchie di un'espressione come il fornaio Giovanni Rana. Si capisce come egli possa parlare di un lungo viaggio illustrando la circostanza di un nome proprio, il suo, passato da attributo del nome comune fornaio (come di ogni altro nome comune, fosse anche cavaliere del lavoro) a nocciolo d'una espressione assoluta che ha la sua persona come riferimento.
Un percorso che (se è lecito approfittare grossolanamente dell'occasione per un riferimento di benevola ironia) ha semplicemente condotto Giovanni Rana a diventare ciò che, da quando è nato, egli è, passando attraverso ciò che, da quando è nato, è il suo nome.
2 gennaio 2013
Farse in due battute (7)
"Ah! L'illustre figura morale... La grande statura intellettuale... L'indimenticabile insegnamento... Il lascito imprescindibile..."
"Giovanotto, che il mio funerale paia la metro in un'ora di punta non l'autorizza. Stia discosto e smetta, per cortesia, di commemorarmi".
1 gennaio 2013
Farse in due battute (6)
"...stanotte, per strada, mi si avvicina un tipo losco. Circospetto, mi fa: «Le interessa un anno nuovo di zecca?»"
"E tu l'hai comprato..."
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