"Alcuni, novellisti di professione, raccoglievan diligentemente tutte le voci, abburattavan tutte le relazioni, e ne davano poi il fiore agli altri. Si disputava quali fossero i reggimenti più indiavolati, se fosse peggio la fanteria o la cavalleria; si ripetevano, il meglio che si poteva, certi nomi di condottieri; d'alcuni si raccontavan l'imprese passate, si specificavano le stazioni e le marce: quel giorno, quel tal reggimento si spandeva ne' tali paesi, domani anderebbe addosso ai tali altri, dove intanto il tal altro faceva il diavolo e peggio. Sopra tutto si cercava d'aver informazione, e si teneva il conto de' reggimenti che passavan di mano in mano il ponte di Lecco, perché quelli si potevano considerar come andati, e fuori veramente del paese. Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandenburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo; passano i Croati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l'ultimo. Lo squadrone volante de' veneziani finì d'allontanarsi anche lui; e tutto il paese, a destra e a sinistra, si trovò libero".
Imperfetto, presente, passato semplice (o remoto).
L'imperfetto, il tempo (o forse il modo) narrativo per eccellenza, fa da sfondo: "raccoglievan... abburattavan... ne davano... Si disputava... si ripetevano... si raccontavan... si specificavano... si spandeva... faceva... si cercava... si teneva... passavan... si potevano considerar...". Forme lunghe: nessuna con meno di tre sillabe. Tutte orientate a creare un'atmosfera di vaghezza e di indeterminatezza, si osservi. Come va osservata l'insistenza, quanto alla diatesi, dell'impersonale. In tale vaghezza, l'imperfetto, col suo carattere aspettuale durativo, prepara insomma con lentezza il luminoso primo piano del presente, rigorosamente personale.
Questo appare all'improvviso ma in modo che, lo si intuisce subito, sarà iterato. Lo si intuisce per via del cambiamento di ritmo: dopo essere stata lunga, l'arcata della proposizione si fa breve: verbo e soggetto. La ripetizione sta alla base della grammatica della poesia, notò Roman Jakobson, e siamo appunto nel nocciolo poetico del passo. Il presente appare inoltre in combinazione con nomi propri: picco di determinazione, certo, ma proiettato verso la favola, verso il mito. Capita allora di stare proprio lì, nei pressi del ponte di Lecco. Capita di vedere defluire i reggimenti: tra la polvere sollevata dai cavalli, dai fanti, capita magari di intravedere Merode, Colloredo, di intravedere Torquato Conti, "il diavolo". Se, di loro, basta solo il nome, una ragione ci sarà e chi fin lì non lo conosce, quel nome, lo impari.
I soggetti incalzano il verbo. Con le sue forme, solo leggermente diverse, questo assicura infatti la continuità testuale: "passano... passano... passano.... passano... passa... passa... passa... passano... passa... passano...": in una fricativa enfatica iterata con tale insistenza, come non vedere una sfumatura fonosimbolica, in rapporto con lo scorrere dei reggimenti lungo il ponte? Manca ad arte qualche battuta: "...e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari...". L'assenza dà al lettore il gusto dell'integrazione virtuale e della partecipazione alla scansione del ritmo. Della novità si fanno carico invece i favolosi soggetti, con la loro variazione. Questa, come si sa, diletta, ma, sempre, per alternante contrasto con la continuità: insomma, per relazione e per differenza.
Fino al momento in cui, "quando piacque al cielo", a mo' di sintesi, tutto si scioglie in una chiusa in quattro tempi, puntiformi e perentori: "passò... fu l'ultimo... finì... si trovò libero". Tutte personali, queste forme del passato remoto scoppiano l'una dopo l'altra in rapida sequenza in virtù dell'essere brevi e tronche. Sono i mortaretti finali: pum, pum, pum, pum.
Si cambia scena, infatti, e parte di conseguenza una diversa orchestrazione dei tempi: "Già quelli delle terre invase e sgombrate le prime, eran partiti dal castello; e ogni giorno ne partiva: come, dopo un temporale d'autunno, si vede dai palchi fronzuti d'un grand'albero uscire da ogni parte gli uccelli che ci s'erano riparati. Credo che i nostri tre fossero gli ultimi ad andarsene...".
E qui si potrebbe chiudere anche questo frustolo. In diminuendo, ancora qualche riga forse merita però l'"anderebbe" che occhieggia, nel primo segmento, tra gli imperfetti. Nota di variazione, d'una modalità che oggi, tra i linguisti, è d'uso indicare come "evidenziale" ed "epistemica". Dopo i congiuntivi della cosiddetta interrogazione indiretta, solo per un attimo, il condizionale dà infatti la parola proprio ai "novellisti di professione" (che li si possa definire ancora oggi così? Sarebbe divertente).
I "novellisti di professione" raccolgono, abburattano, danno il fiore (la piccola catena metaforica ha la farina, al centro: del diavolo?) e, proferendo ciò che riferiscono, capita lo presentino come un sentito dire: quando compare il condizionale, la notizia è, insomma, la voce (o la voce la notizia? Delicata questione, dal far parola sulla quale Apollonio si astiene).
Beh! Scherzando coi santi, ad assicurare il piacere (si dirà infantile) di chi ama la lingua con animo semplice basta, come si vede, veramente pochissimo: à suivre.