10 marzo 2014

Come cambiano le lingue (6): Acronimo

"Nasceranno da questo Convegno inaugurale una serie di iniziative, espresse soprattutto in altri Convegni (ma non solo), in cui all'acronimo "Ripensare la cultura politica della sinistra" sarà affiancato il tema specificamente trattato".
È un acronimo, come scrive alla relativa voce il Vocabolario on-line della Treccani, un "nome formato unendo le lettere o le sillabe iniziali di più parole". Esemplari, in proposito, sono laser, GestapoComintern. Lo sono anche le sigle di cui pullula la comunicazione pubblica: del resto, sigla compare regolarmente nei dizionari, come sinonimo parziale di acronimo e, di conseguenza, sua definizione.
L'area semantica dell'imposizione fiscale, da qualche tempo, è in proposito particolarmente fertile, in ragione, presumibilmente, della ricerca di un qualche effetto eufemistico: Iva, Tasi, Ires, Tarsu, Ici, Imu, Irap, Irpef, Ilor, Irpeg.
Ma è già dai tempi della nascita delle società di massa e delle loro espressioni politiche, statali, economiche, culturali che l'irrompere nel discorso pubblico (e di conseguenza nel lessico) di acronimi d'ogni genere si è fatto massiccio e sistematico. Partiti e movimenti politici, banche e industrie, istituzioni sovranazionali e sportive, sindacati e catene commerciali, stati e gruppi musicali, università e aziende municipalizzate per la raccolta dei rifiuti, corpi speciali di efferata efficacia e organismi umanitari hanno spesso, da circa un secolo, qualcosa in comune: sono designati da un acronimo. Ciascuno integri l'elenco con gli esempi che gli tornano più familiari.
Come nome proprio, famigerato (SS, Čeka) o trasparente solo agli iniziati (HSGYM: cosa sarà mai?), meno spesso anche come nome comune (una ong, una onlus), l'acronimo è allora uno degli emblemi linguistici del Moderno maturo e, ora, del putrefatto. Come scrisse Victor Klemperer: "C'era il BDM [Bund Deutscher Mädel] e la HJ [Hitler Jugend] e la DAF [Deutsche Arbeitsfront] e altre innumerevoli sigle. Nel mio diario la sigla LTI [Lingua Tertii Imperii] compare in un primo momento come scherzo parodistico...".
La popolarità degli acronimi non ha tuttavia reso popolare acronimo, che (come la maggioranza dei termini della filologia) non è certo vocabolo che si incontri tutti i giorni. Esso conserva così, presso coloro che lo orecchiano, quel misterioso fascino da parola perbene che oscuramente invita gli orecchianti a farne, appena se ne sono impadroniti, un uso poco raccomandabile. 
Così è già accaduto da tempo a metafora e, tempo fa si segnalava, sta accadendo da qualche anno a ossimoro. Si comincia, di norma, a usare simili parole a sproposito, solo perché, peregrine, suonano bene e circondano così chi le usa, senza capire cosa veramente significhino, di un'aura da uomo (o donna) di mondo e, al tempo stesso, da intellettuale. Esse compaiono di conseguenza in contesti d'uso che sono, sulle prime, impropri e possono suscitare il sorriso (o lo sdegno) dei pochi consapevoli del guasto.
Se però la cosa piace al demi-monde in cui gli orecchianti nuotano come i pesci nel loro mare e da cui, in fin dei conti, dipendono sempre i destini del cambiamento linguistico, tali contesti d'uso finiscono per determinare, per la parola, mutamenti di valori e di significati.
Succede così che, magari secoli dopo, essa faccia la disperazione di etimologi e storici della lingua, cui capita di chiedersi: "Ma come diavolo ha fatto - poniamo il caso - acronimo a diventar sinonimo di tema, di filo conduttore, di Leitmotiv e, poi, pian piano, a sostituire le espressioni corrette nei discorsi prima della gente che conta, infine di tutta la gente?".
Per solidarietà con costoro e per spirito di corpo, Apollonio ha così avuto cura di affidare al suo diario la prima ricorrenza a lui nota di un tale mutamento di valore per il fin qui innocente acronimo. Ecco allora la ragione dell'esposizione del prezioso reperto. Chi desidera inserire il passo menzionato in esordio nel suo più ampio contesto, linguistico e socio-culturale, trova motivi di riflessione qui.
Sine ira et studio, il presente frustolo osserva la caduta di un primo minuscolo sassolino che, rotolando sullo scosceso e argilloso pendio della lingua della gente approssimativa (e, per tale ragione, di meritato successo), potrebbe valere da segno premonitore d'uno smottamento futuro. Fenomeno peraltro impossibile, lo smottamento, nella quieta e sabbiosa pianura della lingua degli incolti, ai quali mai si imputerà del resto la responsabilità di avere innescato una deriva linguistica del genere. Al massimo, di averne accolto, al momento opportuno, i detriti. 
Ci sarà allora la frana? Acronimo ne sarà travolto? Nessuno può esprimersi con sicurezza, quando è questione di un fatto sociale: tanto meno il linguista, che, quando gli capita di vedere l'alba di qualcosa che lo ferisce o lo seduce (come diceva Barthes), può stare certo che non ne vedrà mai il mezzogiorno: ci si figuri se egli può avere le certezze che, per l'esperienza umana, dà eventualmente il tramonto; talvolta nemmeno quello. 
Apollonio ha tuttavia un sospetto: che tra i suoi cinque lettori ci sia forse chi (evocando tacitamente nel proprio foro interiore il nome di Antonio Gramsci, visto che di cultura della Sinistra si tratta) ritiene, a questo punto, la frana già avvenuta.

[Accadesse che la pagina cui sopra si rinvia scomparisse dalla rete, il lessicografo del futuro ne trova registrazione qui; il testo è adespoto ma gli accenti acuti sulle forme di terza persona singolare del verbo essere che vi si osservano possono contribuire a proporne un'attribuzione.]  

2 commenti:

  1. Mentre leggevo questo Suo affascinante articolo, pettinandomi assorta e rapita le orecchie di orecchiante indefessa, mi sovveniva la nota letta giusto la notte scorsa, in calce ad alcuni versi di Catullo, ossia: "Acme mia, se non ti amo e non ti voglio amare/ perdutamente e sempre quanti anni/ è possibile amare da morire/ nell'Africa, nell'India tropicale/ da solo affronterò i leoni azzurri". La nota suddetta spiegava: "Cioé dagli occhi verdastri come quelli dei felini: sembra che Catullo interpreti l'omerico glaukioon". E lì poco è mancato che la vertigine mi chiudesse gli occhi (benché, deo gratias non per sempre -- non ancora), senonché sono sopraggiunte in mio tempestivo soccorso le amabili tigri azzurre di Borges, col loro insinuante incedere gattopardesco, per non dire principesco. Comunque, per farla breve, Le confesso che è stato del tutto superfluo contarle. Se poi adesso mi aiutano a con-dividere l'amaro pane dei filologi e degli etimolologi, il mio debito nei loro confronti fluttua oltre ogni possibile rendicontazione dell'Istat e di altri acronimi ministeriali che il...glaucoma imperante mi induce a sottrarre a impudiche pronunce e conseguenti rossori.
    Perdoni la digressione, dev'essere la spinta propulsiva alla deriva acronima che non si è del tutto esaurita, non ancora.
    Con divertita ancorché serissima ammirazione, Sua Licia.

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  2. Apollonio Discolo2/4/14 12:58

    Perdoni Lei il ritardo con cui Apollonio Le risponde, vertiginosa Lettrice. A Omero, come Lei sa, bastavano poche parole per scrivere dei molti colori del mondo (e qualcuno ne concluse che, se poche erano le sue relative parole, pochi ne vedeva, di colori: sa, alla gente di mondo, fa talvolta difetto la fantasia). Per interpreti, epigoni e traduttori, di conseguenza, leoni azzurri e piacevoli tuffi nell'ambiguità di un mare colore del vino e nei suoi vertiginosi vortici.

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