"Università e capitalismo avanzato sono fondamentalmente incompatibili": è la conclusione di un intervento giornalistico di Terry Eagleton, dal titolo The death of universities che, stagionato di un lustro, cade per caso in questi giorni festivi sotto gli occhi di Apollonio.
La radicale riduzione delle risorse, osserva l'importante intellettuale inglese, comporta un inarrestabile declino degli studi umanistici nel contesto universitario odierno e, a suo parere, senza studi umanistici non c'è università. Quella che è rimasta "has become a servant of the status quo", recita del resto il catenaccio dell'articolo, ragionevolmente redazionale.
Simili accenti parlano al vecchio cuore di Apollonio. Non è più giovane di quello di Apollonio, del resto, il cuore di Eagleton: ciò che egli scriveva cinque anni fa - con l'aria di prodursi in un'estrema testimonianza - lo dice anche più chiaramente della sua biografia.
Col cuore, bisogna però che ci si sforzi di fare funzionare anche la testa, almeno un po', e che ci si chieda allora a mente fredda se un'analisi del genere indirizzi adeguatamente a capire gli esiti odierni della vicenda secolare dell'università. Perché, è vero, qualcosa è successo ma da tempo. Il decesso non è di questi ultimi anni né se ne può fare carico a una temperie che, ben che vada, è bottegaia e non è certo capace di gesti tanto impegnativi, come sarebbe un assassinio. Si accontenta, al massimo, di maramaldeggiare e di infierire sopra un cadavere. Per chi non la conoscesse già, qui una recente sortita in proposito di Apollonio.
Certo, quando ciò che Eagleaton definisce capitalismo avanzato non era ancora l'universale involucro socio-economico dentro al quale il Moderno procede adesso rapido verso la sua completa putrefazione, l'università (o il suo fantasma) sembrava vivere. E vivere anche qualche fasto. Con essa, persino gli studi umanistici.
Ci si pensi un momento, però. Prima di questa fase, modelli socio-economici concorrenti avevano retto per tutto il cosiddetto secolo breve a quella competizione verso il peggio in cui il capitalismo è appunto risultato selettivamente vincente, perché evidentemente il più adeguato. Sotto quei modelli, verso quali destini sembrava già avviata l'università? Verso destini diversi da quelli che si sono poi realizzati? Ad Apollonio non pare.
L'attentato alla libertà dell'università e alla libertà dei suoi peraltro modesti chierici, anzi, vi aveva già raggiunto livelli piuttosto alti. E se esso non si metteva in atto, come si fa oggi rigorosamente e con gran successo, in nome delle regole dell'economia di mercato, divenute sacre ovunque e tenute per massimamente morali, lo si faceva invocando altri princìpi, sempre sacri, ovviamente, e orientati al bene di sostanze trascendenti.
Lo testimonia esemplarmente un caso che in questi ultimi anni sta ancora facendo tanto rumore, ma per ragioni diverse: la vicenda di Martin Heidegger. Prima che filosofo, Heidegger fu appunto e specificamente professore d'università. Di quella nazione, la tedesca, che vantava nel campo indiscussa qualità e grande tradizione, avendo albergato il nocciolo generatore dell'università del Moderno.
Nel pensiero e nel modo di porsi di Heidegger, comunque li si inquadri, il cedimento dei valori dell'autonomia accademica a valori eteronomi, cedimento opportunamente ideologizzato, è lampante. Lo diventa ancora di più se si compara la sua figura, proprio nella prospettiva squisitamente accademica, con quella di Edmund Husserl, di cui come cattedratico Heidegger fu appunto il diretto successore. Erano proprio gli anni in cui, come istituzione della società liberale moderna dalla vita brevissima e accidentata, l'università periva.
E sarebbe difficile, in proposito, dire non si tratti di decesso decretato anche nell'orto umanistico, la cui presenza, dell'università, non è mai stata, per se medesima, garanzia di salvamento, malgrado la riferita contraria opinione di Eagleton.
Gente disposta alla servitù (anche a una servitù mascherata da potere, come poi ha continuato a essere per qualche decennio fino alle attuali miserie), se ne è sempre trovata e se ne trova ragionevolmente tra filologi e filosofi quanta se ne trova tra fisici e biologi. Né bisogna lasciarsi ingannare in proposito dal fatto che i primi riescono eventualmente a raccontarla (e a raccontarsela) meglio dei secondi.
Insomma, ad Apollonio né le specificità disciplinari né la prossimità temporale paiono tratti distintivi di una vicenda, quella dell'università, marcata da contraddizioni che solo la prima maturità del Moderno, piena di speranze che se ne sono andate ormai da più di due secoli, era stata in grado se non di appianare, almeno di fare risuonare armonicamente. Così appunto nelle pagine (a leggerle oggi, struggenti) di Wilhelm von Humboldt, l'ideatore tedesco dell'università, di un istituto morale, cioè, nato nel Moderno per contrastarne paradossalmente (e, oggi lo si sa, illusoriamente) l'intima tabe di una inarrestabile attrazione per il pensiero unico e per il totalitarismo che (era evidentemente chiaro sin dal principio) l'avrebbe condotto sulla via della putrefazione.
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