4 agosto 2020

Per chi si scrive? Una risposta, poco nota, di Leonardo Sciascia (e una, ben nota, di Italo Calvino)

"Lo scaffale ipotetico" è un piccolo saggio del 1967 di Italo Calvino. A sollecitarne la composizione era stata un'inchiesta "aperta da Gian Carlo Ferretti sul tema: Per chi si scrive un romanzo? Per chi si scrive una poesia?" e ospitata dal settimanale Rinascita, il periodico politico-culturale fondato nel 1944 da Palmiro Togliatti (difficile immaginare, per una pubblicazione, un nome più aderente al programma di conciliazione delle diverse anime della cultura nazionale perseguito dal suo fondatore; Rinascita finì nella pressa della storia quarantacinque anni dopo la sua fondazione e vi fu definitivamente stritolato nel 1991). 
Dal tema dell'inchiesta che gli aveva sollecitato un intervento, Calvino prese d'altra parte a prestito un nuovo titolo per il suo scritto, quando nel 1980 lo ripubblicò. E così il saggio comparve come "Per chi si scrive? (Lo scaffale ipotetico)" nella raccolta Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società. In tale sede Apollonio (o il suo alter ego) lo lesse or sono appunto quattro decenni e da quel momento si fece cosciente e convinto di un'idea che vi è prospettata: "se si presuppone un lettore meno colto dello scrittore e si assume verso di lui un'attitudine pedagogica, divulgativa, rassicuratrice, non si fa che confermare il dislivello [culturale tra colti e incolti]; ogni tentativo d'edulcorare la situazione con palliativi (una letteratura «popolare») è un passo indietro, non un passo avanti. La letteratura non è la scuola; la letteratura deve presupporre un pubblico più colto, più colto di quanto non sia lo scrittore [il corsivo è di Calvino]; che questo pubblico esista o no non importa. Lo scrittore parla a un lettore che ne sa più di lui, si finge un se stesso che ne sa di più di quel che lui sa, per parlare a qualcuno che ne sa di più ancora".
Non mancherà occasione ad Apollonio (o forse, e meglio, al suo alter ego) di tornare su tale idea, dicendo come essa sia pertinente per comprendere e collocare opportunamente non solo recenti fenomeni letterari come il caso Camilleri, ma anche, al di là della letteratura e dei suoi aspetti squisitamente bellettristici, a intendere la natura ideologicamente regressiva, se non apertamente reazionaria di una grande quantità dell'attuale diffusione a stampa o in rete di testi d'impianto, si dice, saggistico e con pretese di divulgazione.
Sugli stessi temi, suona anche oggi pertinentissima la risposta che Leonardo Sciascia diede per altri versi alla medesima inchiesta. Essa comparve proprio nel fascicolo di Rinascita (anno XXIV, n. 46, novembre 1967) in cui Calvino aveva proposta la sua. Molto più breve e molto meno ideologicamente sofisticato di quello di Calvino, lo scritto di Sciascia è anche molto meno noto e ha un titolo, "Tra impegno e disimpegno", che oggi sa di tappo e forse non gli rende giustizia. Sciascia non lo ripropose nelle sue raccolte saggistiche ed è assente dalle successive edizioni delle sue opere. Per quanto Apollonio ne sappia, non è quindi mai stato ripubblicato. Gli pare quindi di rendere un servizio ai suoi due lettori, riproponendolo qui nella sua interezza.
Sciascia scrisse così: "Ho cominciato a scrivere in tempi di impegno; continuo a scrivere in tempi di disimpegno. Non ho tenuto conto dell'impegno (com'era inteso); e non tengo conto del disimpegno (com'è inteso). O dell'impegno del disimpegno, del disimpegno dell'impegno del disimpegno, e così via.
Guardando alla società italiana nel suo insieme (e dico società in senso del tutto approssimativo) e a quello che in questa società accade da venti anni, da cento, da quattrocento, mi sentivo inutile ai tempi dell'impegno e mi sento inutile in questi tempi di disimpegno. Non ho mai scritto, dunque, pensando a una società pronta ad accogliere i miei libri o a respingerli; e tanto meno pensando a una classe pronta ad accoglierli e a un'altra pronta a respingerli. D'altra parte, non ho mai scritto per me stesso: quello che scrivo è importante per me soltanto per il fatto che lo comunico agli altri; cioè per il fatto che quello che vengo a conoscere o a riconoscere scrivendo appunto lo conosco o lo riconosco nel circuito della comunicazione.
Ma chi sono questi altri coi quali comunico (o mi illudo di comunicare, poiché un margine pirandelliano c'è sempre in tutto quello che faccio, in tutto quello cui credo)?
È difficile rispondere indicando categorie, tipi, ambienti. Posso solo dire: sono persone che conosco.
Non il lettore-consumatore, dunque, ma il lettore-interlocutore. Un lettore individualizzato al massimo, direi, e col quale sono riuscito a stabilire un rapporto, molto somigliante all'amicizia, sulla base del senso comune (non dico buon senso per le implicazioni qualunquistiche che ha da noi l'espressione) [i corsivi sono di Sciascia].
E avendo raggiunto un numero piuttosto ingente di lettori-amici (cosa piuttosto difficile in un paese come il nostro), potrei anche essere soddisfatto e sicuro. E invece non sono né soddisfatto né sicuro. Questa vasta cerchia di lettori altro non è che l'allargamento della rosa manzoniana dei venticinque. E perciò come don Abbondio resto a dire: ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro; appunto perché quel che ci vuole quasi non si vede più e a tentare di mutare la situazione, il rapporto, si scivola nel peggio.
A perdere il lettore della qualità dei venticinque del Manzoni, altro non si trova che il lettore consumatore, cioè il lettore invisibile. Qui, dico, oggi. E ne vale la pena?"
Ci si intenda, c'è sempre stato da qualche secolo chi ha pensato di sì, volgarmente convinto del fatto che lettrici e lettori ideali siano ebeti e insipienti. In altre parole, c'è sempre stato chi, spacciandosi per popolare con lampante falsa coscienza, ha pensato valesse la pena, scrivendo, di ordire i facili imbrogli dell'imbonitore. 
Qualcosa è però cambiato, dai tempi di Calvino e di Sciascia, tutto sommato recenti. Oggi pare non ci sia quasi più nessuno che, chiedendosi "per chi scrivo?", abbia pensieri simili ai loro. Che non ci sia quasi nessuno disposto a sottoscrivere in piena coscienza la perentoria e moralmente temeraria dichiarazione che Leonardo Sciascia, spavaldo davanti alla morte, affidò a Georges Bernanos, nell'epigrafe del suo estremo (e tragico) A futura memoria (se la memoria avrà un futuro): "Preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli". 


2 commenti:

  1. Luminissimo,
    desidererei pubblicare questo post(o) nel mio bloggo. MI dà il permesso?

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  2. Apollonio Discolo10/8/20 10:45

    Apollonio ne sarà onorato, gentile Lettore e Collega Blogger.

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