30 maggio 2009

Mainstream

Le buone idee compaiono di tanto in tanto e qui e là, nella testa di qualche essere umano: non hanno padroni, hanno contesti e condizioni sistematiche (comunemente dette menti) in cui si creano. Va diversamente con le cattive, che hanno sempre un padrone e, correlativamente, molti servi. Di conseguenza, a differenza delle buone, le cattive idee sono dappertutto e incombono di continuo. Un tempo si chiamava andazzo l'immutabile fluire della loro continua mutevolezza. Oggi lo si chiama mainstream.

[L'immagine: John Dempcy, Mainstream culture

29 maggio 2009

Televisivo

"L'italiano televisivo": come forse a un buon numero dei suoi pochi lettori, è giunta ad Apollonio notizia di un prossimo convegno dedicato a tale tema, atto conclusivo di una ricerca dal medesimo titolo cui hanno collaborato specialisti di linguistica italiana attivi in molte università. L'espressione presenta ambiguità che non possono non affascinare il grammatico.
Il televisivo dell'"italiano televisivo" può infatti essere anzitutto quel televisivo che, con funzione predicativa e non attributiva, ricorre per es. in Come sport, il calcio è certamente più televisivo del golf. Interrogarsi sull'"italiano televisivo", come ha fatto la ricerca e farà il convegno, significa quindi interrogarsi su una varietà (anche idiosincratica) della lingua nazionale dal punto di vista della sua qualità televisiva, in opposizione ad altre varietà che mancano di tale qualità o la posseggono in misura minore. 
In quella espressione, televisivo può d'altra parte valere come uno di quegli aggettivi che sono chiamati relazionali (Apollonio non trova felice la definizione categoriale, ma così si dice). Ciò apre la porta a una nuova ambiguità.
È infatti relazionale il televisivo che vale 'della televisione'. In tal caso dire "l'italiano televisivo" è come dire l'italiano della Svizzera e studiare l'"italiano televisivo" sotto questa prospettiva significa che se ne è certo giustificata la pertinenza oppositiva rispetto, poniamo, all'italiano della radio. 
È d'altra parte relazionale anche il televisivo che vale 'nella televisione, in televisione'. In questo secondo caso, dire "l'italiano televisivo" è come dire l'italiano nella Svizzera, in Svizzera e studiare l'"italiano televisivo" equivale a capire come e in quali condizioni la lingua nazionale viva nel medium. 
Insomma, con la stessa espressione (come si vede) ci si può riferire a (almeno) tre cose molto diverse, per studiare le quali sono necessari punti di vista e metodi diversi. Che peccato per Apollonio vivere a Citera e non potere assistere a un convegno che, già dal titolo, muove alla discussione e al confronto di prospettive differenti.

PS. Delle tre, confessa Apollonio, la prospettiva che gli pare più stuzzicante e innovativa è la prima. Quale sarà mai l'italiano che viene meglio in TV? Quello, per es., dell'attuale Presidente del Consiglio dei ministri italiano? Se dai lavori del convegno venisse fuori una risposta o anche solo un'indicazione, nessuno potrà dire che la ricerca che con esso culmina non sarà stata grandemente utile.  

Comparare

Saussure lo disse: nella lingua, solo relazioni e differenze. La linguistica è comparativa anche per questa ragione (o soprattutto per questa ragione?). Ma cosa compara chi compara? Compara forme e compara interpretazioni, attribuendo alle une e alle altre uno statuto di realtà che è solo presunto? O compara relazioni e differenze (cioè funzioni, interdipendenze)? 
Oggi, non è forse usuale porsi domande del genere. Ciò non significa che non sia legittimo. Se ci s’indirizza al dominio della comparazione morfosintattica (italo)romanza, si rileva infatti un’attività comparativa, tradizionalmente ricca, di forme e di interpretazioni ma un’altrettanto scarsa comparazione dei valori relazionali, sistematici e oppositivi cui forme e interpretazioni si prestano appunto come manifestazioni.
Un esempio diacronico: tanto il volgare di Dante quanto l’italiano moderno ricorrono a forme di essere come manifestazione della funzione di ausiliazione. Fuggito è ogne augel scrisse il poeta fiorentino (in Rime C 27) e oggi parallelamente si direbbe Ogni uccello è fuggito. Fatti come questi soggiacciono all’opinione comune che in sette secoli nulla (o pochissimo) sia cambiato né si può ragionevolmente presumere che il fuggire dantesco sia interpretativamente differente dal fuggire moderno, come “verbo”. Ma identità formale e interpretativa corrisponde a valori sistematici identici? Lo può credere solo chi ha una visione ingenuamente ontologica della lingua. Nella funzione di ausiliazione di altri costrutti, la distribuzione delle complementari forme di avere, da Dante ai giorni nostri, è mutata. Ancisa t’hai si trova in Pg XVII 37, dove oggi si direbbe Ti sei uccisa. In Dante le forme di ausiliazione non si distribuivano a casaccio: esse costituivano sistema. Come costituiscono sistema e non si distribuiscono a casaccio quelle odierne. Ciò significa che, mutata la distribuzione delle forme di avere, è mutato anche il valore manifestato dalle forme di essere, senza riguardo alla loro persistenza formale e senza riguardo al fatto che il “verbo” fuggire sia rimasto interpretativamente uguale. Parlare di essere come ausiliare dello stesso “verbo”, come se tanto l’ausiliare quanto il verbo fossero stabili enti di un universo linguistico tolemaico e non la manifestazione di puri rapporti è dunque quanto meno grossolano ed inesatto. Dal punto di vista sintattico, l’è fuggito di Dante ed il nostro, pure identici, non sono la stessa cosa, perché manifestano sistemi di opposizione diversi. Si pensi quindi cosa valga rilevare che, in decine di lingue diverse, forme di ausiliazione simili si combinino nemmeno con lo stesso “verbo” (che è già un'astrazione) ma con le differenti guise lessicali che prende un non meglio determinato concetto: poniamo, il “movimento”. Si è usi chiamar ciò attività di ricerca comparativa ma si tratta solo dell’ennesimo camuffamento di un’antichissima attitudine erudita.  
Un esempio non-diacronico: anche il siciliano Gianni è nisciutu e l’italiano Gianni è uscito si somigliano tanto da sembrare perfettamente paralleli. Essi sono tuttavia tradizionalmente (e giustamente) considerati così dissimili da essere classificati come costrutti l’uno aggettivale, l’altro verbale. Si precisa poi che, com’è noto, al secondo corrisponde invece il siciliano Gianni à nisciutu. L’invocazione di differenze categoriali e le glosse (‘statività’, ‘telicità’) che si spacciano sovente come loro fondamenti semantici sembrano spiegazioni ma sono soltanto l’istituzione di circoli viziosi concettuali. Cosa vuol dire “aggettivo”, cosa “verbo”, non dal punto di vista formale o interpretativo ma dal punto di vista radicalmente sintattico? Per chi mira a comparare non forme né interpretazioni ma relazioni e differenze, per chi mira a fare dell’attività comparativa un’autentica procedura razionale, cosa valgono questi feticci che la linguistica trascina con sé da tempo immemorabile e cui, travestendoli sotto tutte le fogge possibili tanto formali quanto interpretative, rende ancora omaggio come a veri e propri totem tribali? 

27 maggio 2009

Sometimes they come back

E se l'attributo storica di linguistica storica volesse talvolta dir soltanto (cosa peraltro comune in italiano) "che incarna un'età che non esiste più o che sta finendo"? 
È ciò che vien fatto di pensare ad Apollonio quando gli capitano sottomano certi scritti introduttivi che prendono a pretesto la menzionata e innocente disciplina (che ben altri e problematici avviamenti forse meriterebbe) o quando vede rimesse in giro figure che giacevano sepolte e ci si poteva solo augurare che dalla loro tomba, per carità di patria, nessuno le facesse risorgere mai più. 
In tali casi non di linguistica storica, dunque, si tratta ma più propriamente di una linguistica di revenants.

[La citazione viene dal punto 8 della v. storico del Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia]

Nomen, non me! (6)

"Lucia c'est moi!", pensò forse e, dopo lungo lavoro di lima, riflettendo sulla sua arte sopraffina, si rivolse così ai suoi venticinque lettori, lasciandoli di stucco :



Sazi? Men non so darla




[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta]

26 maggio 2009

Passato remoto, imperfetto...


...che lusso! Ci sono lingue che non dispongono di manifestazioni formali così comode per valori funzionali che esistono anch'essi nei loro sistemi ma che per venire fuori hanno da fare percorsi più tortuosi, meno trasparenti.
Per spiegarsi differenze di valori di passato remoto e imperfetto nella classica prosa narrativa italiana, senza bisogno di arzigogoli metalinguistici,  basta del resto leggere un semplice brano tratto dai Promessi Sposi, osservando contrastivamente la distribuzione delle forme verbali. 
La "notte degli imbrogli" volge al termine. Su consiglio di fra Cristoforo, Lucia, Agnese e Renzo lasciano precipitosamente il villaggio: "Essi s'avviarono zitti zitti alla riva ch'era stata loro indicata; videro il battello pronto, e data e barattata la parola, c'entrarono. Il barcaiolo, puntando il remo alla proda, se ne staccò; afferrato poi l'altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile se non fosse stato il tremolare e l'ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S'udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglìo più lontano dell'acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que' due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano. L'onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia, increspata, che s'andava allontanando dal lido. I passeggieri, silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand'ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d'addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l'occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all'estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e seduta, com'era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente".
C'è dietro (lo si capisce) la mente e l'espressione di un grande regista. Come in un film: ritmo cadenzato delle inquadrature, a cogliere, con estrema riduzione alla pertinenza narrativa, l'aspetto puntiforme di un agire di vari personaggi che precipita e si scioglie in un piano sequenza. Con la profondità del campo, il piano sequenza proietta quindi la narrazione in una indefinita durata che prepara con lentezza e sospensione una brusca, drammatica interruzione. Ed ecco il close up, insistito e alternato con una ripresa in soggettiva, a svelare chi, del passaggio (come del resto dell'intero romanzo), è l'autentica protagonista, a svelare e a nascondere i suoi pensieri e i suoi sentimenti. 
Ma il commento, come è appena il caso di dire, guasta con la sua verbosa prolissità ciò che, nella lingua, è per se stesso evidente: altrimenti, la lingua che ci starebbe a fare? Apollonio ne è consapevole: il compito del linguista sarebbe tacere. E qualche grande tale compito l'avrebbe anche assolto in modo sublime, se non si fosse fidato, anche solo chiacchierando, di presunti allievi. Tacere e aprire bocca solo per dire che è la lingua stessa a rendere inutile la linguistica? I due lettori di Apollonio non lo svelino, per cortesia, alle autorità accademiche. Questo è il vero paradosso disciplinare. Il suo portato di consapevolezza rende oggi e renderà sempre indispensabile la linguistica. Spiegarlo alle autorità accademiche? Sarebbe inutile (à suivre).

23 maggio 2009

Leggere (e, eventualmente, scrivere)

"Non esiste purtroppo uno studio sull'italiano scritto degli insegnanti: è vero che alcuni sono rispettabili studiosi e autori riconosciuti (per esempio Edoardo Albinati, Domenico Starnone, Marco Lodoli, Paola Mastrocola, Eraldo Affinati, Margherita Oggero) ma gli altri, la stragrande maggioranza? La domanda equivale a un allarme: come può correggere uno scritto chi non ha mai avuto l'obbligo e sentito la necessità di scrivere, chi in effetti non scrive dalla tesi di laurea e lo fa, da tempo immemorabile, soltanto sul registro e nel retro d'un compito in classe?". Se lo chiede con sdegnoso pathos Massimo Raffaeli oggi, sulla Stampa. Chiude così in crescendo un'elogiativa recensione del libro di Luca Serianni e Giuseppe Benedetti, Scritti sui banchi. Non è chiaro se la domanda compaia in forma comparabile e con portata identica nel libro. È una novità. Apollonio non l'ha ancora avuto tra le mani e non può dirne nulla ai suoi due lettori. Da ciò che ne scrive Raffaeli, sembra che esso tematizzi l'italiano scritto degli elaborati scolastici dei discenti, in funzione del quale verrebbe poi fuori "l'allarme" (del recensore? degli autori?) sull'italiano dei docenti. "Emergenza insegnanti" rincara il sommario "come può correggere uno scritto chi non scrive più dalla tesi di laurea?".
Può farlo e molto bene, è la risposta che nasce immediata nello spirito di Apollonio. Basta solo che legga, che legga tanto e con consapevolezza. Ed è ciò che hanno sempre fatto e fanno gli insegnanti coscienziosi: quelli che non scrivono sui giornali ma solo, e con encomiabile modestia, "sul registro e nel retro d'un compito in classe", secondo lo sprezzante giudizio di Raffaeli. Il cielo ci guardi, al contrario, da correttori la cui competenza fosse certificata, come Raffaeli implicitamente sostiene, dal bisogno o dalla necessità di scrivere, cui invece andrebbe sempre opposta una fiera resistenza. I meno che modesti esiti di questo medesimo blog sono i primi per paradosso a darne prova.
E, d'altra parte, se c'è qualcosa di veramente difficile da insegnare (e per cui la scuola, non solo quella italiana, fa difetto) è a saper leggere, appunto, e non a saper scrivere, come oggi corrivamente si inclina a credere. Si surroga così con un'illusoria crescita della capacità di comunicazione ciò che invece andrebbe didatticamente perseguito: la crescita interiore di una consapevolezza espressiva che si esercita, anzitutto, nell'ascolto e nella lettura.

20 maggio 2009

Intolleranze (2): Salve

La colpa è certo delle mamme. Si sa com'erano le mamme italiane d'un tempo: come quelle d'oggi, protettive e asfissianti, ma, a differenza di quelle d'oggi, direttive, educatrici, rigorose. E qual era uno dei primi insegnamenti sociali che una mamma impartiva alla propria creatura? Il buon Giannino va giù a comprare il sale, che manca in dispensa: “Giannino, di' buongiorno, quando entri dal tabaccaio; e grazie e arrivederla, quando esci”. La piccola Veronica ha due linee di febbre e il medico, anzi il dottore, viene a sera a visitarla? “Di' buonasera, dottore, quando il dottore entra nella tua cameretta; grazie e arrivederla, quando va via”.
Di' buongiorno, di' buonasera: si finiva per imparare e si cresceva così, con una chiara differenza quanto alle formule di saluto. Da un lato, l'informale ciao della confidenza familiare e indirizzato, fuori di casa, ai compagni di scuola, agli amici di gioco, ai coetanei incrociati per caso. Dall'altro, l'articolato buongiorno, buonasera (signora, dottore, professore) sentiti come abiti puliti e decorosi per andarci a spasso per il mondo e dovuti a persone di riguardo, ma anche ad estranei generici e, per esplicito segno di cortesia e di distanza reciprocamente rispettosa, a sconosciuti d'ogni sorta. 
Poi  d'improvviso le mamme italiane devono avere smesso. Non si sa perché. Già all'altezza della generazione che è classe dirigente e che si attesta oggi tra i quaranta e i cinquanta anni e poi a valanga nel caso dei più giovani qualcosa deve essere successo. Gli esiti si vedono e macroscopici. 
In compagnia di una signora, incontri per le scale un giovanotto che ti conosce appena e ti senti sparare un “salve”. Pensi: “Siamo in due, perché non ci dice Salvete?”. Ma con un sonoro “salve” si introduce nel tuo ufficio un supponente importuno e “salve” ti vedi scritto in apertura di una lettera elettronica che ti manda una studentessa. Un esclamativo “salve!” ti si dice in coro dalla tv e da ogni altro mezzo di informazione. Capisci allora che il latino proprio non c'entra e che quindi ancora meno c'entra quel “salve” che, come saluto e a introdurre invocazioni, percorre intera la tradizione letteraria e religiosa italiana e che si rifletteva in quegli umili oggetti, come gli stuoini, su cui un “salve” veniva ritualmente iscritto.
“Lele, di' salve al dottore”: impensabile, quaranta anni fa, una mamma italiana che sollecitasse così la propria creatura a un comportamento sociale educato, i due lettori di Apollonio ne converranno. Ecco perché, per paradosso, si può solo pensare che la colpa sia proprio stata delle mamme. Devono avere smesso di dire alcunché, in proposito. Per pigrizia devono avere deposto la loro funzione culturalmente altrice. 
Per apprendere le forme di saluto da aggiungere al “ciao” familiare, quando la necessità fosse venuta con l'età, alle povere bambine, ai poveri bambini italiani rimasero allora solo i telefilm americani e i cartoni animati giapponesi che mandava la tv. Quella tv davanti alla quale l'attuale classe dirigente italiana finiva posteggiata per ore ed ore e si è formata nell'adolescenza (prima e più sostanzialmente che frequentando università e scuole d'eccellenza). Nel doppiaggio di telefilm americani e di cartoni animati giapponesi i “salve” già allora si sprecavano: e ci sarebbe da chiedersi perché. È simpatica bizzarria d'altra parte immaginare che la lingua possa cambiare (ammesso che lo faccia sul serio: lo sapranno i posteri) per una ragione tanto bislacca. Bislacca? Talvolta le ragioni che paiono bislacche sono le migliori occasioni che lo spirito di un'epoca ha per splendere e manifestarsi.
Si pensi alle differenze, appunto, che nella nebbia dell'indeterminatezza di un “salve” si sono perse. I due lettori di Apollonio ci hanno certo già riflettuto. Dire “ciao” o dire “buongiorno”, “buonasera” a qualcuno è assumersi il peso e la responsabilità del proprio ruolo nello schema dell'interazione sociale di un saluto. È dichiararsi disposti e pronti a farne il calcolo, in funzione del contesto in cui l'atto linguistico si realizza. Sia rispetto, sia cortesia, sia pure (come è talvolta) violenza, dire “ciao” o dire “buongiorno”, “buonasera” è consapevolezza (anche ipotetica, anche errata) di ciò che si è ed è coraggio (anche facile, anche millantato) delle proprie azioni. Azioni, si badi bene, che nulla esclude siano infami: tale è infatti il “ciao” che si sente sovente maramaldescamente rivolgere a chi si vuole tenere per inferiore e diverso. Ma anche in tal caso un “salve” basterebbe a riempire ciò che dovrebbe esserlo da un doveroso e sentito “buongiorno”?
Insomma, dire “ciao” o dire “buongiorno”, “buonasera” è riconoscere, rispettandole, differenze, gerarchie, diseguaglianze, varietà (anche temporali) che il “salve” appiattisce con la sua vigliacca volgarità di falsa anticaglia democratica. Chi saluta con un “salve” spaccia così un'autentica patacca, pronta per tutti gli usi, per il giorno come per la notte, e da rivolgere a chi si finge (anche con se stessi) di rispettare come a chi si spregia senza volere darlo a vedere (nemmeno a se stessi).  “Salve” è il baratro dell'odierno nulla che si spalanca al di là del “ciao”.
Contro l'andazzo è però inutile lottare. Apollonio è quindi pronto ad ammetterlo: “salve” è l'abito che meglio si adatta a chi lo indossa e chi lo indossa è certo il meglio adatto al tempo presente. 

19 maggio 2009

"If you think education is expensive...

If you think education is expensive try ignorance
...try ignorance".

Apollonio dirà ancora una volta "nomen, non me!", perché l'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta e l'anagramma del nome di questo blog suona

Apollo col Dioniso

Ciò basterà a spiegare ai suoi cinque lettori l'ineguale andatura delle brevi prose che vi compaiono. Ragionevoli, forse, ma per via di un'interiore e inesausta letizia dionisiaca.

[Il detto morale è attribuito a Derek Curtis Bok, la foto, hausgemacht, è uno degli scatti di grafosecondo-Alessandro La Fauci]

15 maggio 2009

Una lingua non comune

Una storia straordinaria alle spalle, l'italiano è oggi come ieri una lingua non comune. Lo è perché in esso ha preso forma un mondo di idee, di sogni, di esperienze, di fantasie, di realizzazioni che ha pochi eguali nella vicenda umana sulla terra. Italiana è l'espressione non solo di poeti e scrittori di valore ma anche di grandissimi scienziati, architetti, pittori, scultori, musicisti, artisti di ogni arte, nelle cui opere, nelle cui scoperte, nelle cui invenzioni spira sempre l'anima di una lingua tanto nobile quanto fragile. 
L'italiano è d'altra parte non comune per un equilibrio prezioso: lingua di una ristretta casta di cólti, ma solo per uno dei suoi molti aspetti, e al tempo stesso punto ideale di incontro, proiezione sistematica di una molteplicità infinita di variazioni. Dialetti? Certo, ma dialetti capaci di dare voce autentica a una innumerevole gamma di esperienze umane. Una realtà linguistica mutevole e vivace, che si nutre dell'idioma nazionale e continua a nutrirlo, a tutti i livelli. 
E l'italiano è non comune anche nel suo valore di lingua che supera i confini della nazione linguistica italiana (dal Gottardo a Lampedusa). Altre lingue, oggi più fortunate, sono tali (e lo si dimentica) perché si sono diffuse o stanno diffondendosi con la violenza e con l'arbitrio: sono state e sono ancora, insomma, anche delle armi. 
Per la gran parte della sua storia, l'italiano ha viaggiato invece per il mondo sulle ali di enti gentili (le arti) e ambiguamente angelici (come il danaro) o sulle gambe di una enorme e pacifica diaspora umana che, con l'emigrazione, l'ha portato nel cuore dell'Europa continentale come in America del Sud, in Australia come negli Stati Uniti. 
Se l'italiano è una lingua non comune, ancora meno comune è continuare a farne oggi un'esperienza di vita al meglio che si può e in ogni campo della cultura e della conoscenza. Nella sua modesta area di competenza, questo diario ci prova. 

12 maggio 2009

Il programma della linguistica

Qui, Apollonio non l’ha mai detto e del resto è proprio difficile dirlo. È certo però che i suoi due lettori, per semplice effetto d’umana simpatia, hanno capito da tempo ciò che egli pensa e prova a formulare non per via diretta (non ne sarebbe capace) ma accumulando esempi peregrini. Come nell’incoerente racconto di un picaro, essi poi lo inducono a divagare. E magari è meglio così.
Vuol dirlo, però, sommessamente e come può. A suo parere, spetta alla linguistica la prospettiva di scienza umana integrale, né filologica né filosofica: in grado perciò di comporre sistematicamente le due tradizionali attitudini disciplinari nell’opposizione fondamentale col suo proprio punto di vista, che non è storico né ontologico ma correlativo. Funzionale, un tempo si sarebbe detto appropriatamente: ma la qualificazione non è stata risparmiata nei decenni passati da note devastazioni concettuali e la si può evocare ormai solo con cautela e facendola seguire, come qui, da opportuni distinguo.
Di passaggio, ciò spiega l'attuale scarsissima fortuna del punto di vista linguistico. Si vivono infatti gli esiti lontani d'una temperie culturale che abbandonò il porto apparentemente sicuro ma pieno di inganni e di mistificazioni dei pedanteschi fasti filologici (insomma, quello contro cui si schiantò Ferdinand de Saussure) e, gettandosi a capofitto nella ricerca o nella negazione del senso, si votò a una inevitabile bancarotta intellettuale.
Siccome al peggio non c'è fine, ne venne aperta la strada a chi prese ad accumulare furiosamente e nel più completo disordine ogni genere di paccottiglia, fino a restarne sommerso e soffocato, secondo una variante degradata dell’antica attitudine erudita, sorretta almeno un tempo da una nobiltà del gusto che aveva invece cominciato a latitare ed è oggi del tutto sparita. E siamo così al tempo presente.
Nella sua riflessione (se tale la si può definire), il tempo presente è quanto di più lontano ci sia dall'idea di faticosa ricerca di un'ipotetica sistematicità per differenze: questo è appunto il programma della linguistica.
Il tempo presente osserva invece incantato la pletora di enti e di oggetti in cui nuota con l’attitudine ebete di chi mira a servirsene (e magari se ne serve) senza avere idea di cosa stia facendo e senza domandarsi se non si tratti per caso di fantasmi reificati dall’eclissi di ogni pensiero critico e dall’inarrestabile dilagare, tra i suoi presunti maîtres à penser, della più piatta stupidità.
Mai epoca migliore visse quindi la linguistica, come forma integrale di critica radicale del suo tempo, mai epoca migliore forse vivrà: la scarsa fortuna di cui gode racchiude e protegge come uno scrigno il valore della sua saggezza alternativa.

8 maggio 2009

Nomen, non me! (5)


Dopo il suo passaggio, ci sarà qualcuno in grado di rendere di nuovo gravida d'idee la linguistica?

Monko maschy

Secondo un blog appena comparso in rete (i due lettori di Apollonio ne avranno avuto notizia), nel 2009 se ne festeggerebbero gli ottanta anni. Ma è nato nel 1928 e il neo-blogger si sbaglia. Anch'egli è un linguista, del resto, e i linguisti, si sa, sono al massimo bravi a parole. Coi numeri vanno poco d'accordo e non spetta loro saper fare di conto.

[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta]