La colpa è certo delle mamme. Si sa com'erano le mamme italiane d'un tempo: come quelle d'oggi, protettive e asfissianti, ma, a differenza di quelle d'oggi, direttive, educatrici, rigorose. E qual era uno dei primi insegnamenti sociali che una mamma impartiva alla propria creatura? Il buon Giannino va giù a comprare il sale, che manca in dispensa: “Giannino, di' buongiorno, quando entri dal tabaccaio; e grazie e arrivederla, quando esci”. La piccola Veronica ha due linee di febbre e il medico, anzi il dottore, viene a sera a visitarla? “Di' buonasera, dottore, quando il dottore entra nella tua cameretta; grazie e arrivederla, quando va via”.
Di' buongiorno, di' buonasera: si finiva per imparare e si cresceva così, con una chiara differenza quanto alle formule di saluto. Da un lato, l'informale ciao della confidenza familiare e indirizzato, fuori di casa, ai compagni di scuola, agli amici di gioco, ai coetanei incrociati per caso. Dall'altro, l'articolato buongiorno, buonasera (signora, dottore, professore) sentiti come abiti puliti e decorosi per andarci a spasso per il mondo e dovuti a persone di riguardo, ma anche ad estranei generici e, per esplicito segno di cortesia e di distanza reciprocamente rispettosa, a sconosciuti d'ogni sorta.
Poi d'improvviso le mamme italiane devono avere smesso. Non si sa perché. Già all'altezza della generazione che è classe dirigente e che si attesta oggi tra i quaranta e i cinquanta anni e poi a valanga nel caso dei più giovani qualcosa deve essere successo. Gli esiti si vedono e macroscopici.
In compagnia di una signora, incontri per le scale un giovanotto che ti conosce appena e ti senti sparare un “salve”. Pensi: “Siamo in due, perché non ci dice Salvete?”. Ma con un sonoro “salve” si introduce nel tuo ufficio un supponente importuno e “salve” ti vedi scritto in apertura di una lettera elettronica che ti manda una studentessa. Un esclamativo “salve!” ti si dice in coro dalla tv e da ogni altro mezzo di informazione. Capisci allora che il latino proprio non c'entra e che quindi ancora meno c'entra quel “salve” che, come saluto e a introdurre invocazioni, percorre intera la tradizione letteraria e religiosa italiana e che si rifletteva in quegli umili oggetti, come gli stuoini, su cui un “salve” veniva ritualmente iscritto.
“Lele, di' salve al dottore”: impensabile, quaranta anni fa, una mamma italiana che sollecitasse così la propria creatura a un comportamento sociale educato, i due lettori di Apollonio ne converranno. Ecco perché, per paradosso, si può solo pensare che la colpa sia proprio stata delle mamme. Devono avere smesso di dire alcunché, in proposito. Per pigrizia devono avere deposto la loro funzione culturalmente altrice.
Per apprendere le forme di saluto da aggiungere al “ciao” familiare, quando la necessità fosse venuta con l'età, alle povere bambine, ai poveri bambini italiani rimasero allora solo i telefilm americani e i cartoni animati giapponesi che mandava la tv. Quella tv davanti alla quale l'attuale classe dirigente italiana finiva posteggiata per ore ed ore e si è formata nell'adolescenza (prima e più sostanzialmente che frequentando università e scuole d'eccellenza). Nel doppiaggio di telefilm americani e di cartoni animati giapponesi i “salve” già allora si sprecavano: e ci sarebbe da chiedersi perché. È simpatica bizzarria d'altra parte immaginare che la lingua possa cambiare (ammesso che lo faccia sul serio: lo sapranno i posteri) per una ragione tanto bislacca. Bislacca? Talvolta le ragioni che paiono bislacche sono le migliori occasioni che lo spirito di un'epoca ha per splendere e manifestarsi.
Si pensi alle differenze, appunto, che nella nebbia dell'indeterminatezza di un “salve” si sono perse. I due lettori di Apollonio ci hanno certo già riflettuto. Dire “ciao” o dire “buongiorno”, “buonasera” a qualcuno è assumersi il peso e la responsabilità del proprio ruolo nello schema dell'interazione sociale di un saluto. È dichiararsi disposti e pronti a farne il calcolo, in funzione del contesto in cui l'atto linguistico si realizza. Sia rispetto, sia cortesia, sia pure (come è talvolta) violenza, dire “ciao” o dire “buongiorno”, “buonasera” è consapevolezza (anche ipotetica, anche errata) di ciò che si è ed è coraggio (anche facile, anche millantato) delle proprie azioni. Azioni, si badi bene, che nulla esclude siano infami: tale è infatti il “ciao” che si sente sovente maramaldescamente rivolgere a chi si vuole tenere per inferiore e diverso. Ma anche in tal caso un “salve” basterebbe a riempire ciò che dovrebbe esserlo da un doveroso e sentito “buongiorno”?
Insomma, dire “ciao” o dire “buongiorno”, “buonasera” è riconoscere, rispettandole, differenze, gerarchie, diseguaglianze, varietà (anche temporali) che il “salve” appiattisce con la sua vigliacca volgarità di falsa anticaglia democratica. Chi saluta con un “salve” spaccia così un'autentica patacca, pronta per tutti gli usi, per il giorno come per la notte, e da rivolgere a chi si finge (anche con se stessi) di rispettare come a chi si spregia senza volere darlo a vedere (nemmeno a se stessi). “Salve” è il baratro dell'odierno nulla che si spalanca al di là del “ciao”.
Contro l'andazzo è però inutile lottare. Apollonio è quindi pronto ad ammetterlo: “salve” è l'abito che meglio si adatta a chi lo indossa e chi lo indossa è certo il meglio adatto al tempo presente.
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