31 ottobre 2011

Ossimoro, tempi e panini

Oggi che la più aggressiva economia capitalista del mondo è retta da un partito che si dichiara comunista, c'è poco da stupirsi: l'ossimoro è proprio pane quotidiano. Apollonio e i suoi cinque lettori l'hanno già annusato da un po'. Ne capita adesso, sotto l'occhio (e il palato) della mente, un caso che si dirà pure linguisticamente gustoso. 
La declinazione italiana della più nota catena mondiale di alimentazione veloce e di massa, lo spregiato mostro il cui nome si pronuncia con disdegno intorno a ogni desco bennato, lancia in questi giorni una linea "di alta cucina". E già questo, se ne converrà, sa di contraddittorio. 
All'operazione si presta un cuoco celebrato dall'informazione e non nuovo a comportamenti stravaganti. Ne viene fuori per primo un paninazzo non male, battezzato Vivace dagli esperti di comunicazione del gruppo.
L'antifona è chiara. Anche visivamente il nuovo prodotto è presentato con caratteri che sembrano usciti fuori da uno spartito musicale settecentesco (vi si simula persino un inchiostro color seppia, come rincalzo dell'isotopia alimentare). Denominativamente, si proseguirà, pensa subito Apollonio, con qualche altra eterna perla dell'italiano della musica.
Ed è proprio quello che succede. A Vivace fa seguito Adagio. Il che, per la cosa che ci si trova sotto i denti nell'antro in cui si celebrano i riti feroci del fast food per antonomasia, è una felice trovata stilistica e scatena, in implicito, il corto circuito di un autentico ossimoro: "Nel fast food, si mangia Adagio". Si vuol mettere, poi, lo sberleffo ai quei supponenti tartufi (ohibò!) del sedicente slow food e al loro becero affarismo parassitico?
Il gioco (con i suoi vantaggi, per chi lo conduce) continua e si vedrà quali saranno i suoi prossimi esiti onomastici. Difficile che si ricorra a Presto o, ancora peggio, ad Andante (con moto o con brio non basteranno a riscattarlo). Ma c'è da attendersi forse un Allegro e, per chiudere, magari un Fortissimo.

[A parere di Apollonio, Adagio, il panino, s'intende, è peggio riuscito di Vivace: se i cinque lettori si diranno interessati, seguiranno rapide recensioni degli attesi polloni (niente scandalo: sempre meglio che parlare di libri, di questi tempi)].

25 ottobre 2011

Una legge fondamentale della stupidità

Una gazzetta culturale scrive con enfasi di un libro di cui, periodicamente, passano sulle stampe pubbliche lodi. Il libro enuncia cinque leggi fondamentali della stupidità umana. Libro e leggi sono ritenuti universalmente di sopraffina acutezza. Sulla scorta dell'encomio del libro e del suo autore, la gazzetta invita i suoi lettori (come usa adesso per "fidelizzarli" e farli sentire "partecipi") a proporre anche loro qualche legge della stupidità umana ("stupidità umana", s'osservi, è già un pleonasmo). 
Dalla sua Citera ahimè baudelairiana e per sollevarsi lo spirito, Apollonio partecipa idealmente all'iniziativa, con gioia. Riflessivamente, propone di conseguenza la seguente

Legge fondamentale della stupidità:
È stupido chiunque enunci una legge fondamentale della stupidità (Corollario: Ci si figuri chi ne enuncia cinque).

[In proposito e a chiarimento, è forse opportuno il rinvio al post musiliano che Kublai Kan, nel blog accanto, ha pubblicato il 23 giugno 2009: Apollonio ne raccomanda la consultazione all'esigua schiera dei suoi lettori].


23 ottobre 2011

L'imbroglio di Orwell

Il 1984 è passato da più di un quarto di secolo e ciò che Orwell profetizzava scrivendo il suo libro nell'anno con le ultime due cifre invertite non s'è verificato. Anzi, nel 1984, solo un lustro di vita rimaneva a una delle realizzazioni storiche, tutte molto fragili e contingenti, del suo ideale Big Brother. Dunque Orwell si sbagliava. 
O si sono sbagliati gli interpreti, che, incoraggiati da una certa grossolanità intellettuale dell'autore, dai modi superficiali dell'opera e dal suo titolo infelice, hanno corrivamente preso come profezia la semplice constatazione, sotto forma narrativa, del baco che guasta la vita sociale umana: il conformismo. 
Il guasto del conformismo è permanente e non riparabile. Con esso bisogna semplicemente essere pronti a convivere, augurandosi di essere tanto fortunati da non doverne pagare personalmente un intollerabile prezzo in termini di sofferenze e di dignità, prima di morire lasciandolo a chi, vittima o carnefice, se non vittima e carnefice, seguirà. 
Se, quanto a 1984 e a Orwell, non è vera l'ipotesi che egli medesimo obbedisse in realtà alle regole eternamente imposte dal Newspeak. Proiettava così nel tempo e nella storia e rendeva parodisticamente come contrasto tra new e old ciò che invece c'è sempre stato, c'è e ci sarà: la guerra mossa dal conformismo, con esiti sempre vittoriosi, alla marcatezza della sparuta intelligenza umana. Questa è sempre individuale e capita talvolta che diventi perciò un valore universale, senza farsi mai però norma sociale.
Insomma, possono cambiare i modi e le armi di tale guerra, possono essere più o meno crudeli le sue procedure, può essere più o meno gonfia la folla che s'incarica di combatterla maramaldeggiando, ma 1984 è sempre. 
Non bisognava allora attenderlo per la data fatidica, come il Big Brother conformista ha voluto che si facesse dettando a Orwell il titolo del suo scritto. Sarebbe sciocco credere oggi, quando il conformismo si realizza in modo parossistico e quasi al limite dell'autolesionismo, che, già presa Berlino, passato il 1984 e poi caduti tutti i muri, la si sia scampata bella.

22 ottobre 2011

Linguistica generale e grammatica universale

La linguistica è una bizzarra disciplina sperimentale. Tra le sue stranezze, una delle maggiori consiste nel fatto che il suo discorso si sovrappone al suo oggetto di ricerca e, condividendone la natura,  finisce per esserne parte. Non ci si pensa mai, in effetti, ma più cresce il discorso della linguistica, che è esso stesso lingua, più cresce la base di dati che fanno da oggetto di ricerca della linguistica.
Non va così nel caso di altre discipline sperimentali. Riflettere da biologo sul mondo della vita, scrivere da astronomo su stelle e pianeti sono attività conoscitive che, quando si tratta di scoperte, possono anche avere, come conseguenze, ciò che si può considerare come una crescita nella biosfera o quanto al numero degli astri. Ciò che si sta dicendo del rapporto tra la linguistica e il suo oggetto sottolinea però una circostanza completamente diversa. Ogni volta che qualcuno pensa alla lingua, a una lingua in qualsiasi lingua, ogni volta che qualcuno ne scrive, che scopra o no qualcosa che prima era ignoto, l'universo sperimentale cui il suo studio si consacra cresce proporzionalmente. Infatti egli pensa alla lingua, ne scrive, ne parla con la lingua e producendo testi linguistici.
Da una considerazione del genere discendono parecchie conseguenze, cui accadrà magari di tornare in altre occasioni. Qui piace ad Apollonio sottolinearne solo una, di cui fu cosciente Zellig Harris. Essa è stata celata dallo scientismo di maniera di suoi epigoni e oggi (c'è da pensare con fondamento) è completamente ignorata da praticanti di una scienza immaginaria, che, come diceva Saussure, bisognerebbe anzitutto sapessero ciò che fanno.
La linguistica è un'interiore secrezione della lingua. Tutta insieme e comunque si sviluppi, anche impetuosamente, essa ne è e ne sarà sempre niente di più che un modesto sotto-insieme. Tale sotto-insieme trova però la sua nobiltà e la sua ratio in un prometeico sforzo di autoconsapevolezza.
Insomma, linguistica (quando è veramente linguistica) è solo quella lingua che, provando a divenire appena un po' consapevole, riflette sperimentalmente su se stessa. 
È questa la semplice ragione per cui il sogno humboldtiano (cioè moderno, utopico e egualitario) che la vera linguistica insegue è che ogni forma di espressione umana secerna la sua linguistica, la sua autoconsapevolezza. E che dal concerto delle innumerevoli linguistiche delle lingue, professate da parlanti fattisi linguisti perché divenuti almeno un po' coscienti di competenze altrimenti solo nativamente intuitive, nasca un giorno, per comparazione, una linguistica generale, con l'infinita pazienza e il doveroso scetticismo sempre necessari alla crescita di una conoscenza umana autentica.
La linguistica generale di tale utopia della ponderazione, dell'eguaglianza e del rispetto, se mai ci sarà, sarà ben diversa da tutto ciò che oggi viene prematuramente spacciato, con fretta e grossolanità, come grammatica universale e che non riguarda la lingua degli esseri umani ma, ammesso che la cosa abbia un interesse, il presunto cervello di quell'automa radicalmente scemo concepito, come feticcio d'umanità, dalla limitata fantasia dei suoi inventori.

21 ottobre 2011

La zavorra dell'italiano

Per le scienze italiane, che rischiano di affondare nell'oceano tempestoso delle valutazioni e delle verifiche bibliometriche, l'italiano è una zavorra. Dopo il caso delle scienze esatte e naturali, si apprende da voci autorevoli, ciò vale adesso anche per le morali. Per riuscire a galleggiare come possono, prima lo buttano a mare, l'italiano, e meglio è. 
Resta un modesto problema. Gettata via l'espressione italiana, di una cultura (o di una civiltà), di cui le scienze (non solo le morali) sono forse una non piccola parte, come si farà a dire che è cultura (o civiltà) italiana? 
Lo si dirà forse a partire dall'indirizzo di casa o d'ufficio dei suoi praticanti. O dal loro luogo di nascita. Meglio ancora: dal fatto che, andando a far spese al mercato, chiedono al pizzicagnolo un etto di lonza e che, a sera, gettandosi in poltrona, si lasciano inebetire dai dibattiti dei talk show: in italiano.
Certo, il teatro musicale è arte e, a differenza della scienza, l'arte, lo si sa, è roba poco seria e da perdigiorno. Non c'è del resto espressione più universale della musica. Ci si chieda, però: senza l'italiano ci sarebbe un teatro musicale italiano? Ci sarebbe una delle maggiori glorie nazionali divenute mondiali?
Che, senza una sua propria espressione, una cultura (o una civiltà) non esiste (più) è una di quelle banalità che sarebbe difficile immaginare di dover rammentare a scienziati morali. Eppure pare si debba. Chiamati al capezzale di un malato, quando consigliano di abbandonare l'italiano, costoro svelano di non essere medici e d'essere invece becchini. Da buoni becchini, dichiarano il caso disperato e propongono di risolverlo nel modo più spiccio: seppellendo l'ammalato, tra le chiacchiere dal pizzicagnolo e quelle da talk show. 
Seguendo il facile andazzo, quasi tutti si finge del resto di ignorare che, anche fuori d'Italia e dell'italiano, la vera questione in ballo nelle attuali scienze globali (soprattutto nelle morali) non è la lingua ma la scarsa qualità dei loro praticanti e quella pessima dei loro dozzinali prodotti. Si finge di ignorare poi che le sole cose autenticamente globali sono le sciocchezze. In qualunque lingua siano espresse, infatti, esse restano tali. Meno locale è la loro espressione, però, maggiori sono i guasti che esse producono: irresponsabilmente. E ciò spiega alla perfezione, almeno nelle scienze morali, gli indici altissimi di cui godono nelle valutazioni fondate su criteri bibliometrici. Ineluttabili e incontestabili, ritiene Apollonio, come i rilevamenti sull'ascolto dei talk show, sul numero di visite ai blog e sulle vendite globali delle bevande gassate.

19 ottobre 2011

Ready-made

Presto al mattino, in aeroporto. Arrivatovi chissà come, chissà da dove, un piccione si aggira ballonzolando tra le sale e i gates. Veste grigio e modesto, come molti degli esseri umani che gli corrono attorno. Il gioco costerà forse ad Apollonio la piccola buona considerazione di cui godeva presso qualche raffinato amatore della parola, ma come trattenersi dal rivelare l'affiorare del nativo pensiero che si tratti appunto di un piccione viaggiatore?

15 ottobre 2011

Sommessi commenti sul Moderno (2)





Si cominciò mozzando la testa a qualcuno. Fu presto chiaro che si sarebbe finito col perderla tutti.

12 ottobre 2011

Vocabol'aria (2): "opinionista"

"Oltre a giocare a calcio, io non so fare altro. Mi metto a fare l'opinionista?  Non so parlare, non so dire niente. Ogni tanto dico una stronzata...". Fino a ieri, il calciatore Antonio Cassano non era una figura pubblica per la quale Apollonio stravedesse. Non per via delle "cassanate" ma a causa dell'aria truce e da bullo che si metteva per farle e che, diversamente da come ritenevano i soloni che lo criticavano e che ne criticavano il comportamento per presunto eccesso di naturalezza, lo rendeva invece soprattutto inautentico. 
Si vedeva del resto ch'era cresciuto in un ambiente in cui l'inautenticità signoreggia. Un ambiente in cui tra il "farci" e l'"esserci" non c'è proprio partita. Dove o "ci fai" o, in sostanza, non ci sei, non esisti. Proprio come nell'accademia o tra gli intellettuali, varianti ripulite (e sovente malamente ripulite) della cosiddetta "Bari vecchia" (i cui abitanti spera Apollonio non si tengano troppo offesi dal paragone).
Antonio Cassano deve essere pian piano maturato, però. Annunciando ieri al mondo che, nel giro di un triennio, si ritirerà dai campi di gioco, all'intervistatore che gli chiedeva se, appese al chiodo le scarpette, l'addio avrebbe riguardato l'intero mondo che ruota intorno al pallone, ha risposto più o meno come qui in incipit si è provato a ripetere, fidando nella memoria.
Come la palla che Cassano ha sempre bravamente preso a calci, facendo l'unica cosa che dichiara con ragione di saper fare, la verità è rotonda. Lo sosteneva Parmenide di Elea. Opposta alla verità, diceva, c'è la doxa: l'opinione. E con l'opinione, i professionisti dell'opinione: gli opinionisti. 
A lui che ha naturali e ingenui commerci con la verità nelle sue sferiche forme, afferma Cassano, l'opinione proprio non si addice e non gli si addice, di conseguenza, la professione che prende origine dall'opinione.
 Per le vie misteriosissime della civiltà (che sono lungi dal coincidere con quelle di una sedicente cultura), lo spirito dell'antica Grecia d'Occidente, italiota o siceliota che essa fosse, si riverbera con splendore nei modi calcistici e concettuali del calciatore, anche se il mare su cui si riflettono è diverso. Era il Tirreno per Parmenide e Zenone. Per Cassano è l'Adriatico. 
Vedranno però, i cinque lettori di Apollonio. I diabolici mestatori della pubblica opinione l'avranno vinta anche questa volta. Riusciranno a guastare anche lo spirito eleate di Antonio Cassano di Bari. E da calciatore vero e, qualcuno dice, geniale e da uomo consapevole di dire "stronzate", ne faranno uno di quegli aspiranti caporali che di "stronzate" vivono: un povero e falso opinionista.

11 ottobre 2011

Bolle d'alea (14): Flaubert



Apollonio tape de temps en temps sur le clavier de son ordinateur et Gustave Flaubert, d'un sourire sardonique, ne manque jamais de lui chuchoter dans l'oreille: "Est-ce que le bon Dieu l'a jamais dite, son opinion?".

8 ottobre 2011

La servitù volontaria

Sotto il sole, veramente niente di nuovo. Passano i secoli e, come già altre volte, il Discours sur la servitude volontaire torna in circolo per opera e ad uso di fanatici. È il destino paradossale dell'intelligenza. Quando per avventura la si vede, non si dice prevalere, ma anche solo diffondersi, si tratta sempre d'una illusione. Esattamente in quel momento, infatti, s'apre sotto i suoi piedi il baratro della più cocente e autolesionistica sconfitta. 
Nelle parole di Étienne de la Boétie, con l'incoscienza del gioco, l'intelligenza si manifestò. Così facendo, essa si consegnò inerme nelle mani della più cruda stupidità, la sola e vera tirannide che tiene il mondo in pugno, da sempre. Secolo dopo secolo, questa ha dunque potuto usare il Discours e ancora oggi prova a usarlo, per armare, con pretesa di brillantezza, i suoi servi volontari. 
Il sorriso amaro e preoccupato di Michel de Montaigne l'aveva ben previsto, dell'opera del giovane amico. Essendosi espresso, questi finì però per attirare anche Montaigne, come si sa, nel gorgo dell'espressione. 
Esprimersi è un vizio assurdo. Lo si contrae più facilmente frequentando, anche per semplice lettura, le cattive compagnie. Ed è certo la peggiore delle sciocchezze. Se non bisogna concludere, con un sorriso altrettanto amaro ma ancora più compassionevole, che un'intelligenza che si esprime è solo la seducente e ingannevole maschera che indossa, per far meglio le sue vittime, la più laida stupidità.

7 ottobre 2011

Undici e, per giunta, straniere

Colta al volo, in una libreria aeroportuale. Explicit del fervorino al lettore che, come nota biografica, occupa un'aletta della sopraccoperta del libro di un autore che va oggi per la maggiore ed è pubblicato da un editore di livello: "...i suoi libri sono tradotti in undici lingue straniere".

Del fine dicitore

"Quella di Tranströmer è una poesia potente e dotata di viva complessità, ma anche decisamente comunicativa". Il modulo stilistico è tipico della prosa critica contemporanea. Ne è anzi una sorta di riconoscibile birignao. 
Il pronome, che funge da soggetto, fa da catafora del nome del predicato, di modo che la comprensione resta sospesa ("quella di Tranströmer... cosa?") e, quando giunge finalmente lo scioglimento ("...è una poesia... Ah!"), il calcolo funzionale ha da ingranare la retromarcia ("la poesia di Tranströmer, allora") per riprendere dal principio. 
È questione di millesimi di secondo, naturalmente, ma il risultato è un va' e vieni che, come inutile orpello, ingarbuglia forme e funzioni lungo la linea del tempo.
A paragone si metta la semplice ed elegante linearità di "La poesia di Tranströmer è potente e dotata di viva complessità...". Così si sarebbe egualmente detto tutto ciò che (a quanto pare) si voleva dire, col vantaggio di non esibire un'enfasi che ha il poeta svedese recentemente laureato come pretesto e, come tema autentico, lo stile del fine dicitore che oggi ne tesse l'elogio.