Chiunque può dire "ai miei tempi...". È vero tuttavia che immaginare che lo proferisca chi è sotto i venti anni è duro.
Tra gli "studiati" (bella designazione riapparsa fausta nella memoria d'Apollonio), basta però avere varcato la soglia del second'anno d'università - non essere più matricole (altra vecchia parola!) - basta poco, insomma, per sentirsi autorizzati a dire "ai miei tempi...".
E lì, prendendo i toni vissuti dell'uomo o della donna di mondo e in malcelato dispregio di un presente decaduto e, caso mai, da restaurare, narrazioni di epiche marachelle, di insegnanti severissimi o beffati, di "studio matto e disperatissimo", di programmi formativi di qualità, di antichi valori culturali, di letture e traduzioni di migliaia di irte pagine, di amicizie cementate nei bagni della scuola e così via.
"Ai miei tempi...": oggi capita d'ascoltarlo sulle labbra o di coglierlo sotto la penna di chi, navigando, felice lei o lui, nei suoi anni migliori (e certamente non vetusti), già (o ancora?) vi indulge pubblicamente. E, come dettaglio espressivo, è deliziosa e coerente nota di una temperie morbidamente reazionaria e nostalgicamente post-adolescenziale.
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