C'è chi vuole abolire il latino e chi no (il greco, quello, si è già abolito da sé). C'è chi difende un modello di scuola per l'Occidente e chi dice che, come modello, pare una sdrucita marsina un po' ridicola, ormai, e in ogni caso da rattoppare. C'è chi parla di fine del classico come metonimia e, come metafora, la butta sul potare. C'è poi l'intollerabile tropo sportivo dell'asticella. Bassa? Sono alti i lai. Alta? Ma dai...
Chi sarebbe poi all'altezza di alzarla, l'asticella? Sbaglia Apollonio a sospettare che in coloro che rispondessero "io" il vertiginoso sentimento sarebbe chiaro indice che sono dei palloni gonfiati o (va detto, per correttezza di genere) delle mongolfiere?
Frattanto (e, a dire il vero, già da un po') ciò di cui si discute "non è più tra noi". Anzi, c'è il sospetto che la generazione (ideale, oltre che anagrafica) che oggi ne parla tanto e, pontificando, talvolta oppone il suo petto a difesa, talaltra arretra e, bontà sua, concede il passaggio a una storia che in realtà ha già sfondato le mura, ne parli come Omero faceva dei suoi eroi, Virgilio del suo Enea o Ariosto dei suoi cavalieri e delle sue donne: per fantasia e per sentito dire.
Lo stesso accadrebbe ad Apollonio, del resto, se anche lui pretendesse di avere qualche indirizzo da dare, in proposito. Non ne ha invece, come è normale che sia, e pensa che sia doveroso non nasconderselo. Doveroso verso se stesso, sia chiaro.
La baruffa classicamente intellettuale e classicamente nazionale sul tema della scuola e del liceo classico che oggi riempie qualche pagina delle gazzette culturali, insomma, è tutta letteratura: di qual livello, giudichino i due lettori di Apollonio. Forse non lo biasimeranno però se, al confronto, dichiara in conclusione di trovare Ariosto più spassoso, Virgilio più commovente e Omero più sanguigno.