NIENTE DI VERO dichiara, come titolo (ed è il caso di dire: alla lettera), la copertina d'una delle opere narrative che sono state in lizza quest'anno per il più rumoroso premio letterario italiano e accredita l'autrice del paradigmatico nome di battesimo di VERONICA.
Sono passati undici anni da quando questa raccolta di impressioni linguistiche ("...parce qu'il me blesse ou me séduit...") segnalava quel radicale mutamento dell'onomastica nazionale che, nel quotidiano commercio degli ipocoristici, aveva decretato il declino, si ponga, di Sandro e Betta e l'ascesa di Ale ed Eli, il deperire di Enzo e Rina e l'affermarsi di Vince e Cate. E di Fede, Vale, Costi, Ferdi, Giuli, Simo, Cami, Marghe, Caro, Dani, Adri e chi più ne ha più ne metta: per chi ha curiosità archeologiche (quanti sono undici anni, nel tempo del web?), ecco il reperto.
Oltre che per vero, quel VERO può quindi pacificamente stare oggi per Vero(nica): ambiguità di cui l'autrice pare si sia detta ben consapevole. Appartiene appunto alla generazione con cui l'andazzo si è definitivamente consolidato.
Dicono le schede editoriali che il libro abbia tema famigliare e sia quindi
almeno in parte un'autobiografia. Apollonio non può darne testimonianza
diretta, ma, sin dall'apparire dell'opera, il paratesto ne ha qualificato la scrittura di una
schiettezza che rasenterebbe la brutalità. La trovata antifrastica del titolo sarebbe quindi ironica, in funzione di enunciazione e di enunciato, nella lettura di VERO tanto come vero (nel libro, non si direbbe la verità), quanto come Vero(nica) (il libro non parlerebbe di Vero(nica)).
Ma l'antifrasi sarebbe ben più gustosa nel secondo caso se il riferimento fosse sì specificamente a Vero(nica) ma in particolare, quanto a funzione, come enunciatrice. In altre parole se, riferendosi con un famigliare ipocoristico al quel nome che nella grafica della copertina lo sovrasta, il titolo dicesse a chi lo intende che lì dentro non c'è proprio 'niente di suo', che quel nome è al massimo un nom de plume o forse solo una falsa attribuzione e che il testo, tutt'altro che anepigrafo, è in realtà adespoto. Insomma, che il libro non è opera della appena sopra menzionata VERO(NICA). Una stregoneria.
Se così fosse, anche solo per tale ragione e al di là di ogni questione sulla qualità dell'enunciato, di cui Apollonio, per insipienza, non ha nulla da dire, Vero(nica), designazione fasulla di una funzione del testo, avrebbe certamente meritato di vincere il premio.
ἀπό Apollonio queste cose non si notano
RispondiEliminaLa lingua, gentile Lettore o Lettrice senza nome, è più grande di chiunque la parli o la scriva. A stretto e attento osservare, quando la si mette in opera, nessuno sa per intero cosa sta facendo; è la sfida di chi fa poesia (intenda Apollonio, non solo quella che Dante chiamava "rima"): spingersi verso il massimo conseguibile di consapevolezza. Come modesto osservatore, c'è in Apollonio l'ormai lunga consuetudine, quasi il vizio, a verificare sul campo, come può, esiti della spassosa battaglia e della sempre rinnovata sconfitta.
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