"La vedete voi, Padre, Concetta ambasciatrice a Vienna o a Pietroburgo?" La testa di Padre Pirrone fu frastornata da questa domanda. "Ma che c'entra questo? Non capisco".
Qui tratto, come esempio in forma finita, dal Gattopardo, entrarci, con il valore di 'avere attinenza con qualcosa', sta diventando centrare. Il mutamento si sta verificando in barba alla consolidata opposizione sistematica dell'italiano che vede le particelle, anche le cosiddette pleonastiche, precedere le forme verbali finite cui si appoggiano ma seguire le infinite: Me la squaglio, Me ne vado ma È meglio squagliarsela, andarsene; Ci ha messo del suo ma A metterci del proprio si rischia.
Parlando del mutamento in questione, Apollonio si serve di forme progressive e non perfettive solo perché resta ancora qualcuno, lui incluso, a fare (inutile) resistenza.
Non verbatim (difficile conservare una tale memoria) ma in qualcosa che non differiva troppo da un "De Luca c'entra [o centra?] con... quanto posso centrare [o c'entrare?] io con..." si è prodotto iersera in TV un filosofo e intellettuale veneziano di primissimo piano, parlando di politica. E c'è da supporre l'abbia fatto non per compiacere ad arte, esprimendosi vulgariter, i suoi interlocutori e il suo pubblico ma per evidente e intima adesione alla vulgaritas.
A chi guarda all'espressione nel suo continuo farsi, che mai rinnega il sistema, la faccenda, per quanto minuscola, provvede qualche utile insegnamento. Viene alla luce, con essa, il ruolo che la più banale e corriva faccetta percettiva dell'espressione riesce a produrre sul mutamento lessicale, naturalmente con il concorso della consolidata presenza del vecchio e incolpevole centrare, 'fissare nel centro, colpire il centro' etc. In menti semplici, c'entro io, c'entri tu, c'entra lui, c'entriamo noi e così via hanno alla fine generato il mostro.
Di mutamento lessicale, al momento, si tratta. A coloro, filosofo incluso, per cui centrare vale già 'avere attinenza con qualcosa', c'è da supporre, non passa ancora per la testa di dire selasquagliare o cimettere. Forse già un po' senandare, teme Apollonio.
Con centrare, perciò, i giochi sembrano fatti. Con il nuovo valore, almeno nell'orale, centrare ha preso ormai dimora in un (presunto) piano nobile della lingua. E c'è un po' da stupirsi (non ancora da sistupire), perché stavolta l'innovazione, pochissimo sofisticata e, anzi, francamente elementare, deve essere nata proprio nei locali di servizio del palazzo della lingua, tra gente semplice, appunto, e, come si diceva un dì, illetterata.
Non pare infatti nata nell'amministrazione della società, dove prospera quel demi-monde, fatto di persone pubbliche, a vario titolo da considerare come faccendieri e faccendiere della parola, di cui altre volte in questo diario si è detto, sul tema della lingua che cambia.
A un certo momento, costoro si son fatti certamente araldi del centrare che avanza. Nulla di nuovo si produce infatti nella lingua che non passi tra chi cura con accanimento di conformarsi agli andazzi (come, forse malgrado le sue intenzioni, mostra d'essere quel filosofo veneziano). Ma stavolta ciò che è piaciuto loro e di cui stanno decretando il successo ha l'aria d'essersi inizialmente prodotto, come errore meritevole del blu, nell'espressione (eventualmente scritta) di un alunno di una scuola primaria o secondaria inferiore. E nemmeno del centro, vien fatto di dire. Della periferia urbana più marginale: "Centrare, io non centro mai".
Che i filologi del futuro (se la filologia avrà un futuro) ne conservino memoria.