31 agosto 2024

Come fu che la Crusca perse l'articolo...

 



Il post in una rete sociale dell'Accademia della Crusca parzialmente ripreso nell'immagine e raggiungibile qui ha almeno due aspetti per risultare interessante a chi è curioso dei fatti della lingua. 
Uno è banale e solo apparentemente piccante. Al fondo e a caratteri cubitali, il post porta una scritta, "ORA IN PREORDER", che ha scatenato ironie, ire, sdegni, anatemi da parte dell'orda, sempre vigile e inquieta, dei difensori della lingua nazionale: in proposito, una montagna di commenti che cruscheggiano contro la Crusca e, conseguentemente, l'osservazione che, per quanto uno si atteggi a cruscante, incontrerà sempre qualcuno più cruscante di lui (osservazione che vale, come si sa, per quasi tutti gli aspetti morali della vita umana e che, specificamente, è stata ampiamente verificata, nel Moderno, da molte, se non da tutte le azioni o reazioni politiche).
Nemmeno un commento, se Apollonio non sbaglia, ha invece suscitato l'altro interessante dettaglio espressivo del post, certo più sottile e non corrivamente lessicale (ma si sa, consapevoli che la lingua non sia fatta solo di parole e ancora meno di regole e parole si è fortunatamente in pochissimi). Ad Apollonio, vizioso di lingua per un otium ormai totale, quel dettaglio pare invece un dato sensazionale. Può darsi che si tratti solo di una svista, ma qui si corre deliberatamente il rischio di prenderla sul serio. Del resto, dai tempi del dottor Freud, se non si prendono sul serio le sviste, da prendere sul serio non resta veramente quasi nulla.
Recita allora il post in apertura: "Il nuovo libro di Crusca edito da Mondadori!", Sì, proprio così: "di Crusca" scrive l'Accademia della Crusca nella réclame che fa a se stessa. C'è chi penserà a questo punto immediatamente: "Sarà effetto della concisione imposta dal medium e dal tipo di comunicazione". 
Nell'interrogarsi sui fatti di lingua, un funzionalismo molto alla buona, epifania concettuale di uno spirito fondamentalmente bottegaio, fa in effetti sempre da panacea. Quando osserva qualcosa, "A che serve?" è la domanda-emblema di tale attitudine etica, prima ancora che teoretica. È domanda alla quale non è mai difficile trovare una risposta. Trovatala, ogni spirito si acquieta (o si agita di conseguenza, ma non quanto all'interrogazione di base, divenuta un pretesto). Se dunque "la Crusca" si trasforma in "Crusca" è per far presto e non prendere troppo spazio... Del resto, l'articolo, in quel post, a che servirebbe? Ecco appunto.
Mani avanti. Chi la pensa così ed è contento o contenta della risposta può tranquillamente smettere di leggere questo futilissimo e faticoso frustolo o, caso mai, di commentarlo. Qui, di un fatto, ci si chiede anzitutto il come e solo secondariamente, molto secondariamente si prova a immaginare il perché, in un ordine inoltre che privilegia la causa sul fine, facendone netta distinzione. E che rifugge di conseguenza dalla prestidigitazione di fare collassare la prima nel secondo. "Causa finale" l'hanno chiamata i filosofi e Voltaire, in una sua pagina divertente, l'ha messa alla berlina: "...lo stomaco per digerire... gli occhi per vedere... i bachi da seta in Cina, per avere la seta in Europa...".
Bando però a simili astruserie epistemologiche (che parolona!). Peraltro, la concisione le banalizza e se stanno funestando questa sortita, la colpa è dell'alter ego di Apollonio, con i suoi suggerimenti, e del suo terrore che Apollonio, nel suo sparuto diario, non sia chiaro e provochi equivoci: l'effetto, come si vede, è paradosso. Ma convincerlo!
Si venga dunque al sodo, sempre che a fatti di lingua tanto impalpabili si possa attribuire una qualificazione siffatta.
Il sodo è che l'Accademia della Crusca vale, da secoli, come nome proprio e, come fanno spesso i nomi propri, nei secoli ha prodotto anche un suo singolare ipocoristico, se così si vuole dire: la Crusca. Ci si intenda, qui si mira al valore correlativo, nei discorsi, più che alla forma, e inoltre ipocoristico corrisponde etimologicamente a 'vezzeggiativo'. 
Ma come capita talvolta a simili scorciamenti, l'intento, ammesso ci sia, sfuma e la Crusca e i suoi derivati (un paio hanno già fatto capolino in questo frustolo: altri se ne trovano qui) hanno preso i sensi e i valori procurati dai discorsi e dai tempi in cui sono incorsi e ricorsi. Testimone all'uopo, il Grande Dizionario della Lingua Italiana promosso da Salvatore Battaglia.
I tempi, appunto, e i discorsi: in relazione con l'articolo mancante, sono il tema specifico di questo frustolo. In effetti, da qualche decennio, la Crusca è inopinatamente venuta in una sua auge singolare. 
Non si scrive tornata, perché il suo attuale successo non è né qualitativamente né quantitativamente comparabile con quello, sempre contrastatissimo e fomentatore di polemiche, che ebbe in altri momenti della sua storia secolare: trattava roba (la lingua, e specialmente il lessico) che interessava solo una ristrettissima e permalosissima cerchia di dotti e letterati; oggi, fatta salva la caratteristica di permalosità, non è più così. Lo dice la robusta presenza dell'Accademia nelle reti sociali: su Facebook, si è quasi in cinquecentomila a prestarle attenzione. Oltre che di santi e di navigatori, l'Italia è sì paese di poeti (e di poete, oggi conviene dire), ma forse non si è ancora giunti a tale numero. Ci si sta insomma lavorando...
Si scrive invece "inopinatamente" perché nessuno, accademico o no che fosse, avrebbe potuto sognare un séguito tanto vasto, non solo ai tempi in cui era presidente dell'Accademia Bruno Migliorini (sono trascorsi solo settant'anni), ma nemmeno fino al crollo del Muro di Berlino. 
Poi, il mondo è molto cambiato, eticamente, oltre che materialmente, com'è ridondante ricordare. E, parrà strano, ma non lo è, il successivo crescente successo di un istituto culturale come l'Accademia della Crusca può essere considerato, in Italia, un effetto (nemmeno troppo mediato) di tale mutamento morale. Bisogna però che qui si metta da parte questo aspetto della faccenda, rimandandolo eventualmente a un'altra volta, per tornare, appunto futilmente, alla scomparsa dell'articolo.
Ebbene, il nome proprio di qualcuno o di qualcosa il cui bacino di interesse raggiunge la cifra cui sopra si è alluso, nella società dei consumi di massa, soprattutto in quella più modesta del cosiddetto consumo culturale, è ipso facto un marchio o, come si dice con terminologia internazionale, un brand. Qualunque cosa sia l'oggetto designato e qualsivoglia intento abbia chi ne parla (come del resto qui si sta facendo), l'Accademia della Crusca e la Crusca, come scorciamento, sono le forme con cui il marchio appunto si presenta nei discorsi del tempo presente. 
Come forme di un brand, esse entrano pertanto nelle tipiche derive. E qui, per capire una di queste derive, un esempio verrà utile, soprattutto perché tratto dal medesimo àmbito di produzione, lo si dica pure, culturale. 
Nel corrente discorso, la Mondadori del vecchio Arnoldo (M.), la Rizzoli del grande Angelo (R.), la Bompiani del raffinato Valentino (B.) non esistono più. Chiunque detenga le relative proprietà, esistono i marchi Mondadori, Rizzoli, Bompiani, tutti senza articolo, si osservi. Tornati, insomma, anche nelle forme, meri nomi propri, ovviamente senza essere più antroponimi. Exempla ficta: "In futuro, Apollonio pubblicherà con Rizzoli...", "Mondadori, quest'anno, ipoteca lo Strega...", "A Bompiani non fa difetto il coraggio...". 
La ragione è trasparente. Prima, il nome (e il relativo marchio) era riduzione (per ridondanza) di quello che si dà a un opificio: "la [casa editrice] Mondadori", "la [casa editrice] Bompiani" e così via. Luoghi, attrezzature, persone che producevano libri. Oggi l'opificio è, ben che vada, provvisoria proiezione di un'impresa finanziaria e, nei discorsi, Mondadori, Rizzoli, Bompiani e così via sono meri brands, da vendere, da comprare, da esibire, caso mai da esecrare, come tali.
Dal discorso in generale, al discorso in particolare: "Il nuovo libro di Crusca edito da Mondadori!", recita il post della gloriosa Accademia. Poverina, dalla Villa Medicea di Castello, cos'altro avrebbe potuto scrivere? Si fosse presentata ancora con l'articolo ("della Crusca"), a diretto contatto nel medesimo enunciato con il brand Mondadori, implicitamente presentato quest'ultimo come valorizzante, avrebbe fatto figura di vecchia e pezzente. 
Via l'articolo, allora: Crusca. Simile in ciò ai brands di prestigio del Made in Italy, che del resto sono spesso, in origine, autentici nomi propri: FerrariMaserati e Armani, Prada, Dolce & Gabbana, Versace... 
Ecco allora come fu che la Crusca perse il suo articolo... Fu atto di nobilitazione onomastica e di adeguamento al mondo. 
Ma puff! Che fatica, per un la. Si fa prima a sbraitare contro le parole che non piacciono: "Che orrore!", "Sanguinano le orecchie!"... Ancora solo un paio di parole, allora, sempre che i due lettori di Apollonio siano rimasti fin qui a fargli compagnia. 
Da anziano filologo, scapestrato, ma non fino al punto da negare il suo alternante attaccamento al nobile istituto e la sua permanente amicizia verso le colonne che, in tempi non facili come i presenti, lo reggono, Apollonio augura finalmente a Crusca di aprire presto e correlativamente uno show room in via della Spiga. E spera, con Crusca, che la folla dei suoi seguaci super-cruscanti, visto che di show room si tratta, non venga a rompere, oltre al resto, anche le vetrine.

27 agosto 2024

Millanterie temporali: cronologiche e oltre

Sono passati più di venti anni e chissà se i due lettori di Apollonio lo ricordano. Intorno al cambiamento cronologico di millennio, specificazioni come "...del nuovo millennio", "...per il nuovo millennio", "...nel nuovo millennio" e così via spesseggiarono nei titoli e come qualificazioni di imprese delle lettere e delle arti. Di esse, quasi sempre, a distanza di solo cinque lustri nessuno conserva appunto memoria. Giustamente.
Già allora il cosiddetto consumo culturale (in Italia peraltro sempre modestissimo) bruciava commercialmente i prodotti destinatigli in poche settimane e quelle qualificazioni parevano soprattutto comiche. 
Con il transeunte supporto cronologico, chissà se erano consapevoli tuttavia d'essere sospette di una sorgente torbida e inquietante. Nel Novecento, l'idea del millennio s'era infatti presentata allo spirito di chi aveva tragicamente immaginato e propagandato un Tausendjähriges Reich
Bastarono pochi anni e le macerie di antiche, civilissime città europee testimoniarono quanto il sogno fosse insensato e come fosse un incubo anche per la nazione che se ne era lasciata ammaliare. Entrando nella modernità, l'umanità è d'altra parte tornata bambina, per scelta. È letteralmente rimbambita, in altre parole. E, abbandonata la maturità, da qualsiasi sua porzione, anche in apparenza di antica e nobile attitudine alla ponderazione, ci si possono attendere atti e comportamenti infantilmente sconsiderati. 
Sulla scala di quella che, rispetto alla tutto sommato recentissima tragedia, pare invece e ancora soltanto una farsa, la stagione del millennio è appunto rapidamente passata. Si è tornati a misure cronologiche più conformi a ciò che qualificano (giorni, settimane, mesi...). E anche il secolo, di cui si sta già consumando questo primo e oscuro quarto, pare pronto a liquefarsi.
Ciò non significa che, sulla piazza, facciano difetto le millanterie temporali. Gli addetti sono infatti sempre al lavoro. Sull'onda di (un chissà quanto felice) antropocene, di moda è venuto in proposito il suffissoide -cene e lo si vede circolare in quantità. 
Ne risulta in tal modo sfondata addirittura la barriera del temps chronologique, per dirla con la designazione di una delle tre categorie individuate per opposizione da Émile Benveniste sul tema semiologico del tempo. Si collocano così in uno sbardellato e fantasioso temps physique alzate d'ingegno che non è difficile considerare prodotte e vigenti in realtà soltanto per il tempo di alcoliche apericene*. 

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* Circola in una quantità e in una varietà, il suffissoide -cene, che, da un lato, Apollonio, nella sua isolata e silenziosa Citera, non immaginava nemmeno fossero quelle che apprende per comunicazione privata di un cortese sodale (giunta a séguito della modesta apparizione di questo frustolo) e che, dall'altro, pare abbiano già persino prodotto, con riferimento tanto all'àpeiron di presocratica memoria, quanto ai recenti riti alimentari, un omonimico apericene. Apollonio, che ne sa poco, lo immagina pensato sul faceto, ma non si stupirebbe se fosse sul serio o, come è forse il caso, tra il serio e il faceto. Insomma, si è già rapidamente giunti in parecchi al -cene delle beffe e all'un dì proverbiale "E chi non beve con me, peste lo colga!".

22 agosto 2024

A frusto a frusto (138) [Glossa riverente al Bardo]


Il tuo tempo, come quello di Amleto, "out of joint"? Rallegratene! Non c'è tempo che non sia stato tale. Se proprio il tuo non lo fosse, te miserevole. Sarebbe l'annuncio apocalittico della fine dei tempi. 

18 agosto 2024

Cronache dal demo di Colono (72): Boxeur / Boxeuse, come pretesto

Ha un merito la zuffa volgare e riprovevole che, a cospetto del mondo intero, ma soprattutto in Italia, si è prodotta qualche settimana fa sul tema della relazione tra nobile arte e gentil sesso, per dirla come usava un dì il velo di due trasparenti eufemismi. Un'eco della rissa è giunta anche nella silenziosa Citera di Apollonio
Lo schiamazzo ha però messo in chiaro, ancora una volta, che, per gli esseri umani, non c'è dato naturale che non passi attraverso il filtro di complessi sistemi culturali. L'ha messo in chiaro, naturalmente, per chi è capace di vedere e, per questo solo fatto, in un mondo in cui tale capacità latita, si inscrive in una minuscola minoranza. 
Come unico strumento di quieta sopravvivenza, a tale minoranza s'addice il silenzio, rotto eventualmente da complici e sommessi mormorii (questo frustolo è tale, ci si intenda): Mutu cu sapi u iocu, si dice opportunamente in Sicilia.
Del resto, anche altre distinzioni fondamentali, persino più fondamentali, come quella tra vita e morte, stanno nel novero di quelle determinate per via palesemente culturale e mutano di conseguenza.
Da tempo, si tengono in effetti per morte persone le cui parti sono vive abbastanza da contribuire, una volta trasferite, a migliorare la vita di periclitanti viventi: in esseri umani visti come macchine, pezzi da prelevare, pezzi da inserire.
Lo si fa senza implicazioni etiche di sorta né qui si intende sollevarne: solo ricordarne il processo. Si è infatti investita un'autorità superiore (cioè un istituto culturale per eccellenza) del compito di dire quando un essere umano è vivo o morto. Quando vale ancora la pena o quando non vale più la pena di considerarlo "tra noi"...
Come nel caso della boxeuse (meno cruciale, si ammetterà, anche se tanto rumoroso) in cui da ogni parte si invoca infatti in irrefragabile sostegno la Scienza. Singolare e con maiuscola, aruspice somma e veridica della Natura, singolare e con maiuscola. Per questo capace di dirimere il dilemma: boxeuse o boxeur? Vivo o morto?
Si sorvola sul fatto che non c'è sapere umano che non sia un costrutto culturale. In Natura non si dà né Scienza, singolare e con maiuscola, né scienze, plurale e con minuscola. 
In effetti, le scienze, tutte minuscole, interagiscono ovviamente con i loro differenti oggetti, qualificandoli e qualificandosene, ma, a prescindere dalle diversità correlate con tale interazione, sono tutte modi con cui una cultura, anch'essa minuscola (visto che ce ne sono state, ce ne sono e ce ne saranno tante), dice a chi vi si trova inscritto o inscritta cosa è pertinente. Pertinente, per esempio, per dire se si è vivi o si è morti, se, quando la morfologia non basta e interviene la sintassi, l'articolo da associare a pugile sia il o la
Una scienza procura in tal modo idee e immagini, peraltro sempre provvisorie, mai definitive, di ciò che cade eventualmente sotto l'osservazione (potrebbe infatti non farlo: l'osservazione umana non è mai esauriente, perché il tutto è semplicemente irraggiungibile). 
Nel caso di oggetti naturali, le relative scienze non sono altro che i sistemi di idee che di essi si è fatta una cultura, con la decisiva guida di un metodo. "Grazie al Cielo" è il pensiero che consola Apollonio, che ha l'impressione che qui stia forse il loro unico valore; che nella consapevole costrizione al metodo stia, per dire così, il disperante e paradossale vantaggio dell'amatissima cultura in cui, per accidente, nuota dalla nascita. La necessità di un metodo dice infatti che di vie ce ne sono sempre tante, diverse, concorrenti. Di tale cultura tuttavia non riesce a nascondersi i devastanti e mortiferi difetti: il principale consiste (e sta qui la lacerante contraddizione) nella sua sostanziale intolleranza all'esistenza di altro da sé. 
Quanto alle scienze, ci si intenda, Apollonio ne fa sempre gran conto. Può trattarsi in effetti di buone idee, anche di ottime idee, che possono avere riscontri pratici e applicazioni di piccola, grande, gigantesca efficacia (che, si badi bene, non sono mai naturali e sono invece prodotti di un ingegno avventuriero, come è appunto l'umano). 
Se sono tali, le scienze non sono, non saranno mai però ciò che crede chi, chierico o profano, le vede come le chiese in cui si officiano i riti di certezza di un numero comparabile di inconcusse fedi. Sono invece, perlomeno idealmente, i rings in cui si confrontano (o dovrebbero confrontarsi) scetticismi inesausti, sempre consapevoli e pronti, di conseguenza, a prenderle e a darle...

13 agosto 2024

Una nota di socio-antropologia lampedusiana: dall'ozio all'approssimazione

"La strada adesso era in leggera discesa e si vedeva Palermo vicina completamente al buio. Le sue case basse e serrate erano oppresse dalla smisurata mole dei conventi [...] erano essi, i conventi a conferire alla città la cupezza sua e il suo carattere [...]. A quell'ora, poi, a notte quasi fatta, essi erano i despoti del panorama. Ed era contro di essi che in realtà erano accesi i fuochi delle montagne, attizzati del resto da uomini assai simili a quelli che nei conventi vivevano, fanatici come essi, chiusi come essi, come essi avidi di potere, cioè, com'è l'uso, di ozio". 
Sarebbe ridondante precisare a chi presta la sua attenzione a questo diario da dove sono tratte le righe che ha appena lette. Difficile trovarne di più asciutte, di più penetranti, di meno effimere a dire, sul fondamento di una constatazione prima topografica, quindi contrastiva, quale fosse il principale carattere socio-antropologico della civitas oggetto di osservazione, esemplare sineddoche della grande isola mediterranea cui funge opportunamente da capoluogo. Dietro un potere da conservare o da acquisire, un'inestinguibile brama di ozio. 
Oggi ci vuole poco a considerare tale carattere permanente. Esso ha in effetti trasceso gli accidenti storici menzionati in quella rappresentazione letteraria. I durevoli conventi e gli effimeri fuochi contingentemente accesi nell'occasione lì evocata? Mere evenienze. I primi si sono svuotati, ma solo perché consorterie e conventicole di coloro cui, per oziare, serve il potere hanno trovato luoghi più coerenti col tempo per annidarvisi. E ai secondi basta sempre poco per atteggiarsi a festose luminarie, a occhi di bue, a luci della ribalta, a lustrini e così via. 
Si tratta tuttavia, allora come oggi, di una civitas. E, forma di vita umana associata, non c'è civitas che non comporti che qualcosa vi si faccia, che vi vigano attività o, perlomeno, loro parvenze. A ciò si aggiunga che, proprio per il suo carattere di comunità umana, in una civitas, il potere non è mai assoluto. Finisce sempre per incontrare limiti, per essere condiviso. Grande che esso si presenti, è insomma un potere relativo. L'ozio che garantisce è parziale. Chi ha molto potere gode di molto ozio. Ma l'opportunità di oziare si assottiglia via via che si scende giù per la scala del potere. Fino a diventare quasi nulla. 
Mai nulla del tutto, si osservi. La civitas in questione presenta infatti un dato antropologico di rilievo. Proprio in funzione della brama di ozio, culturalmente costitutiva, non c'è suo o sua componente che non finisca per arrogarsi una porzione, anche minima, di potere e che non la eserciti regolarmente con attitudini di norma violente: incoercibili e, caso mai, solo molto malamente mascherate. 
Fosse anche solo il potere di collocare una sedia sgangherata o una arsa fioriera in un marciapiede, come fosse uno spazio esclusivamente privato. O quello di utilizzare l'angolo di una via come discarica dei propri rifiuti. O quello di collocare un mezzo di locomozione personale (qualunque taglia esso abbia: dal SUV al monopattino) come meglio fa comodo e così via. Tutte forme di potere. Miserabili, si dirà. Ma, ci si pensi, perfettamente funzionali agli ozi (miserabili) che esse procurano e che ne rendono perfettamente conto. 
Chi, per esempio, lascia la sua auto in doppia, terza, quarta fila, non lo fa per scarso senso civico o per malgarbo: lo fa per smania di ozio e quindi per esibizione di potere. Quegli eventuali quattro passi in più che avrebbe in caso contrario dovuto fare, con la pur modestissima fatica, avrebbero nociuto alla sua considerazione di sé, l'avrebbero qualificato ai suoi occhi e a quelli della sua comunità come, alla lettera, un(a) imbecille.
Come si concilia allora la brama d'ozio che caratterizza nel loro insieme i cives della menzionata civitas con la necessità di fare o perlomeno di farne un sembiante? Come si comportano, quando si trovano obtorto collo a operare?
Anche qui, l'osservazione procura un dato inequivocabile. Trasformano l'ozio in approssimazione. Colmano ciò che sono costretti a fare di inesattezze, imprecisioni, pressappochismi, raffazzonature, abborracciamenti, rabberciature, raccozzamenti. E lo fanno, questo sì, con la massima cura. Ciò che conta è infatti lasciare in proposito un segno inequivocabile: è capitato di fare qualcosa, ma lo si è fatto di cordiale malavoglia. 
C'è, in tale attitudine, la marca di uno spregio metafisico, la negazione che un ben fatto, tra gli esseri umani, almeno in tale contesto, possa darsi. E c'è anche l'anatema per chi o per cosa ha turbato l'ozio. Da una prospettiva che considera espressione e comunicazione, si può dire a buon diritto che, davanti al fare, con la sua determinazione a essere approssimativo, il cives di tale civitas scaglia contro ogni eventuale ordine del mondo, contro le nette sfere celesti una sonora e terragna bestemmia: "qui, non come Dio comanda, ma a cazzo di cane!". 
Ed è così che, con qualche rimarchevole e segnata eccezione, certo da secoli e, nei tempi recenti, in modo sfacciato e senza eccezione, non c'è cosa in effetti che in Sicilia non si faccia alla bell'e meglio, sans façon, come capita. E a chi, incredulo forestiere, fosse necessaria una visita per constatarlo, sarebbe bastevole solo un giorno per raccoglierne esperienze dirette in quantità.  
Appena il caso di osservare, a questo punto, che nella vita civile una generale approssimazione rappresenta l'habitat più favorevole alla presenza e alla crescita del malaffare. Non è per caso dunque che siano divenuti proverbiali i modi del malaffare che prosperano in tale civitas, orientati fondamentalmente a ribadire un potere. Alla luce dell'osservazione da cui si è partiti, essi producono correlativamente un'attitudine all'ozio che, con circolo vizioso, ingigantisce vieppiù le approssimazioni che consentono al malaffare di prosperare.
Condizioni accidentalmente favorevoli all'osservazione rendono spesso palesi i guasti che un'approssimazione sistematica e generalizzata produce ora in un àmbito della vita associata (si metta, lo stato delle strade), ora in un altro (si metta, la rete idrica). Ovviamente, senza effetti correttivi o, meglio, con effetti correttivi sempre approssimativi. Non da oggi, non da ieri, chi avrebbe dovuto curarsi di un aspetto o dell'altro, strappato dal proprio ozio, lo ha fatto approssimativamente e, complice, l'intero corpo sociale, con la miriade delle sue approssimazioni, lo ha coperto e lo copre: chi non arronza scagli la prima pietra...
Per la brama di ozio, l'operosità puntigliosa, l'accuratezza, la ricerca del ben fatto sono dunque attitudini, si vorrebbe dire, sentimenti che, ammesso abbiano abitato tale civitas di tanto in tanto e ormai in tempi lontani (ce ne sono singolari e, a dire il vero, molto sorprendenti prove) devono sempre essere stati importati: così dice, d'altra parte, l'opera citata in esordio, in un suo successivo passaggio. 
O, se fortuitamente indigeni (non c'è civitas che manchi di pecore nere), tali sentimenti sono (stati) visti appunto come un'autentica devianza, come una diversità pericolosa per la comunità oziosa. Con esiti talvolta letali, per coloro che se ne sono fatti araldi e che, negli intervalli di un ozio sacrosanto, ciò che era loro capitato in sorte di fare, avrebbero soltanto voluto farlo, scandalosamente, a solitaria regola d'arte.

9 agosto 2024

Temi estivi: Ferdinand de Saussure, nel "tiatro" di Andrea Camilleri

"DIPASQUALE: Allora Andrea, noi ci siamo conosciuti, anzi io ho conosciuto te, nel 1985, in Accademia dove venivo a fare l'esame da allievo regista e tu eri docente di Regia e stavi in commissione d'esame. Anzi stavi dietro la commissione, perché non amavi stare nel tavolo insieme agli altri...

CAMILLERI: No, ero in seconda fila...

...E mi fregasti con una domanda... non so se te lo ricordi...

 No...

La domanda era, dopo un esame tenuto con la commissione di circa un'ora e mezza, sul corso di linguistica generale di Saussure. Non mi hai fatto una domanda generica, ma una domanda relativa ad una nota in appendice, che noi sappiamo essere importante in Saussure. Una nota particolare nell'appendice del testo editato dagli allievi... Albert Sechehaye e Charles Bally, e volevi sapere se io la conoscessi o meno. Mi andò di fortuna perché l'avevo letta, altrimenti forse oggi non sarei qui con te.

Vedi, questa era una mia tecnica, ovvero quella di lasciare parlare molto. Se lasciavo parlare molto, voleva dire che la cosa che veniva detta mi interessava, magari non la condividevo, ma mi interessava l'intelligenza di ciò che veniva detto. E allora alla fine, cosa che i miei allievi ignoravano, la domanda carogna era come una conferma a un giudizio positivo: cioè vedere in che modo uno se la cavava. Ammetterai che una domanda così è una domanda carogna!

Abbastanza, infatti mi sentii perso!

Bastava che tu mi dicessi: nel mio libro non c'è... e io non ti avrei squalificato..."

È un passaggio, dalla pagina 36 alla pagina 38, di Il teatro certamente. Dialogo con Giuseppe Dipasquale, volumetto che l'editore Sellerio, pubblicandolo, ha attribuito come postumo ad Andrea Camilleri, ora è un anno. A concepirlo e a comporlo, più che a procurarne una semplice cura, è stato in effetti Giuseppe Dipasquale, che di Camilleri fu allievo all'Accademia nazionale d'arte drammatica, come lascia intendere il passo.
Il libro contiene conversazioni tra lo scrittore di Porto Empedocle e il suo più giovane sodale ricostruite sul fondamento di registrazioni che, da un certo momento in avanti, il secondo, ospite consueto di casa Camilleri, aveva ritenuto di fare di loro chiacchierate private. Una pensata lungimirante: "Un giorno proposi ad Andrea di registrare le nostre conversazioni. Lui acconsentì volentieri", narra Dipasquale quasi sul principio della sua premessa al libro.
La premessa reca inoltre un'anticipazione dell'aneddoto appena riferito, che aggiunge alle battute della conversazione un dettaglio non trascurabile. Precisa infatti sopra cosa verteva la "domanda carogna" (così Camilleri, che - c'è bisogno di dirlo? - era un maestro nell'ammiccante riciclo di cliché espressivi). Scrive allora Dipasquale:  

"L'episodio che racconto sempre [lo fece in effetti anche in una molto affollata presentazione palermitana del libro in cui un anno fa incappò Apollonio] e che in questa conversazione ricordo ad Andrea riguarda proprio un treno: fu in Accademia Silvio d'Amico che Camilleri dopo avermi fatto parlare per un'ora e mezza senza proferire parola, mi inchiodò su un'unica domanda. «Mi sa spiegare» mi disse sornione nella sua elegante e profumatissima figura dandomi del lei «l'esempio che Ferdinand de Saussure, nel Cours de linguistique générale, fa a proposito di un treno?». Basito, attonito, sperduto. Avevo ventidue anni, avevo letto Saussurre [sic] e l'esempio che chiedeva Andrea si trovava nelle note in appendice! Ebbi fortuna, lo ricordai e da lì iniziò la mia amicizia con questo meraviglioso e immenso uomo". 

Galeotto del pluridecennale sodalizio tra Camilleri e Dipasquale fu dunque Saussure. Chi l'avrebbe mai detto? Il racconto li atteggia d'altra parte a fini lettori e profondi conoscitori delle pieghe più riposte del Cours de linguistique générale: "...una nota in appendice, che noi sappiamo essere importante in Saussure...", dice lo scolaro al compiaciuto e consenziente maestro, sollecitandone la connivenza, nel corso della conversazione.
In effetti, nel Cours, senza differenze tra la prima e la seconda edizione, si parla di treni:

"Ainsi nous parlons d'identité à propos de deux express «Genève-Paris 8 h. 45 du soir» qui partent à vingt-quatre heures d'intervalle. À nos yeux, c'est le même express, et pourtant probablement locomotive, wagons, personnel, tout est différent".

Sono però parole tratte dal cruciale terzo capitolo ("Identités, réalités, valeurs") della seconda parte ("Linguistique synchronique") dell'apocrifo saussuriano. Tratte, in sostanza, dal suo cuore concettuale. Non da una nota peregrina di una fantomatica appendice, voluta dai curatori: peraltro, il loro Cours non ne contiene. 
Va detto inoltre che, dagli anni Sessanta del secolo scorso, per via della pubblicazione della traduzione italiana del Cours curata da Tullio De Mauro e da lui corredata, essa sì, da un imponente apparato di note, mimesi dell'esempio ferroviario rimbalzavano di frequente in scritti di divulgazione della linguistica detta strutturale, oltre che nella manualistica universitaria. Erano modi di illustrare con chiarezza analogica la necessità sperimentale di distinguere tra langue e parole. Lì, probabilmente, Dipasquale e son maître avevano orecchiato il bastevole per imbastire su due piedi la complice e istrionesca fanfaronata. E, alla prova, il maestro aveva così constatato degno di lui l'aspirante allievo: "...vedere in che modo uno se la cavava". 
Bando però alle pedanterie. Qui servono a mettere in più chiara luce, per un migliore apprezzamento, la fabula e l'intreccio del minuscolo gag narrato da Dipasquale. Esso è costruito per intero intorno al topos (e alla maschera) del docente burbero e coltissimo, ma in fondo bonariamente umano, con la sua "domanda carogna". Non solo Saussure ("Saussurre" sarà certamente una coquille), già roba da iniziati, ma, per iperbole, Saussure all'immaginario culmine della sua misteriosa ed esoterica trasmissione. Sapiente per via di fortuna, il pivello esce tuttavia dal malo passo e se la cava... Happy end.
Tiatro, insomma. Meglio: eterna, italiana commedia dell'arte. Capitava spesso, quando Andrea Camilleri entrava teatralmente in scena, come fece nel corso di quell'esame. Non si ha il coraggio di scrivere che lo facesse sempre, nella sua vita pubblica, e che quindi capitava sempre. Non si può nascondere però che, sotto sotto, lo si pensa: un onesto "tragediaturi" in servizio permanente effettivo. 
E bisogna allora essere grati a Dipasquale. Con il pretesto di uno pseudo-Saussure, la sua svelta e sapiente regia e il ruolo di spalla di una coppia comica, per lui appropriatissimo, restituiscono nel racconto l'Andrea Camilleri "proto-pirsonaggio", elementare maschera del suo tiatro stabile, nella sua autenticità costantemente paradossale.


4 agosto 2024

Cronache dal demo di Colono (71): Siccità, "tempora" e "mores", alla luce di crude categorie linguistiche

Non piove da tempo, sulla maggiore isola del Mediterraneo e la siccità sta diventando una faccenda socialmente seria, anche per via di qualche imprevidenza e dell'uso di abborracciare, ivi consolidato (se ne dirà, eventualmente, in altro frustolo: gattopardesco). 
Non sarà tuttavia la prima volta che una siccità capita nella lunga vicenda del locale insediamento umano. Il Cielo guardi però Apollonio dall'argomentare sul tema, divenuto scabrosissimo. Non ne ha del resto le competenze. 
Quanto alla prospettiva linguistica e per servirsi di un'utile classificazione proposta da Roman Jakobson, un tempo, parlare del tempo era manifestazione di mera funzione fàtica: chiacchiere in ascensore. Da qualche tempo, come si sa, parlando del tempo (che ora appunto va sotto il nome di clima), non si è passati a manifestare tanto la funzione referenziale (anche se così si pretende), quanto l'emotiva e la conativa: ambedue delicatissime. Quando si incappa nella prima, guai infatti a toccare io che si pretende noi: siamo in pericolo... come faremo? E la seconda, se giganteggia nel discorso pubblico, è tremendamente inquietante. Lo intuì Orwell, ma anche altri prima di lui: fai così... non fare così... comportati bene... guai a te... ecc. O, si badi bene, il contrario: fai come vuoi... fregatene... ma chi se ne importa... 
Quindi, sul clima o, meglio, sul tempo, Apollonio non ha nulla da dire, da persona tranquilla e aliena da qualsiasi polemica. 
Quando Apollonio parla del tempo, ogni sua sortita va allora intesa in prospettiva diacronica. Attenzione: diacronica e non storica. Anche lì, pur se in modi diversi, ci vuole poco a urtare suscettibilità. Gli storici o i loro cani da guardia mozzicano i pitocchi come Apollonio se si azzardano ad andare a spasso per le contrade di loro competenza. 
La diacronia, grazie al Cielo, non riscuote invece interesse. Meglio: per gli storici, non esiste. Esula infatti dal principio secondo il quale verum et factum convertuntur. La diacronia è quella terra di nessuno, quell'isola che non c'è, in cui non solo i fatti, ma anche i non-fatti (per quanto in proposito si può prospettare) valgono in funzione di qualche ipotetico sistema. E il non-fatto sul quale, col presente frustolo, si intende richiamare l'attenzione è, in diacronia, ipoteticamente comparativo. 
Fosse capitata in Sicilia in quella varietà di non-presente che, in diacronia, va definita passato, la siccità (chissà quante volte ci sarà stata) avrebbe riempito di preghiere le chiese o di sacrifici i comparabili più antichi luoghi di culto. Con o senza esito felice, non è qui (né a dire il vero altrove) questione. 
Non c'è consorzio umano che non abbia i suoi (irragionevoli) riti e che non pratichi le sue (irragionevoli) fedi. Anche la fede di non averne più nessuna, quando invece se ne hanno miriadi. Se una fede non fosse irragionevole, d'altra parte, che fede sarebbe?
Ma in quei lontani sistemi, messa a fattore la faccenda della fede, quanto alla comunicazione, si sapeva a chi rivolgersi se non pioveva o se lo faceva troppo. Bisognava al massimo solo avere cura di non fare troppo sembiante di fargliene una colpa... Sarà certo colpa nostra, ma vedi un po' di lasciar correre... Sai come siam fatti
Oggi, in una società ormai lontana erede ma erede, va detto, del famigerato (Non) piove, governo ladro!, non si sa letteralmente a che santo votarsi. Fuori di un'usualmente ribadita richiesta di sussidi (Se non piove acqua, piovano almeno quattrini...: ci si faccia caso), non c'è più un tu, una seconda persona con cui interloquire. 
Nei termini di una tipologia dei testi, è insomma arso il terreno sopra il quale un dì fiorivano le preghiere (e le bestemmie autentiche). Con la siccità, crescono solo asfittici e psicotici anatemi, vane e contorte auto-maledizioni. 
In termini di diatesi, tutto è infatti dolorosamente riflessivo o polemicamente reciproco. Soprattutto l'attribuzione della colpa. Anche quando è rivolta ad altri, gli altri sono allo specchio: in realtà è rabbia  solipsista.
Non si vuole né si può dare postuma ragione a Joseph de Maistre, ma c'è in ogni caso da dubitare che, nella sofferenza materiale eventualmente imposta dalla siccità, si tratti, in un'umana diacronia, di una condizione morale migliore.

3 agosto 2024

Grammatici e pedagogisti

Insegnare, è appena il caso di dirlo, è un'attività peculiare e comporta un modo specifico dell'interazione tra esseri umani. E ciò ben al di là dell'accessoria circostanza che da qualche secolo ci sia stato qualcuno che ne ha fatto oggetto di una dottrina codificata. L'umanità non ha dovuto aspettare pedagogia e pedagogisti per mettersi all'opera in proposito, come del resto non ha dovuto attendere grammatica e grammatici (e, a dire il vero, ancor meno linguistica e linguisti) per esprimersi nella lingua e nelle lingue. Sono ovvietà, ma tocca precisarle sempre a scanso di equivoci.
A chi sviluppa qualche conoscenza sopra un aspetto qualsivoglia dell'esperienza umana nel mondo e si impanca a esperto, con relativo ruolo sociale (ruolo sociale che comporta la creazione di miti, riti, istituti, annessi e connessi), basta poco per credere, spesso in buona fede e perciò con ancora maggiore pericolo, che la propria presunta e precaria dottrina preceda e, soprattutto, fondi l'oggetto cui si applica, tanto in teoria, quanto in pratica. Basta poco per pensare che, senza governo da parte della dottrina e quindi senza magnificazione morale e materiale del proprio ruolo, l'oggetto andrebbe in malora. Basta poco per concludere, a quel punto, che le ragioni della dottrina debbano prevalere e prevalgano tout court sopra quelle dell'oggetto, che sono invece fondamentali e inesauribili, come intuisce chiunque si accosti a esse con modestia per conoscerle anche solo in via di approssimazione, per determinarle grosso modo nella loro interminata varietà.
Ci sono stati tempi, luoghi, civiltà (non si vuole dire né più né meno felici) in cui gli esseri umani si sono espressi e hanno insegnato ad altri esseri umani fuori dello sguardo e degli ammonimenti di grammatici e pedagogisti. E anche in società con grammatici e pedagogisti in servizio permanente effettivo, se si pensa al numero indefinito di semplici occasioni in cui un essere umano si esprime e insegna qualcosa a un altro essere umano, si avrà la misura di quanto possano incidere sulla realtà grammatici e pedagogisti.