"La strada adesso era in leggera discesa e si vedeva Palermo vicina completamente al buio. Le sue case basse e serrate erano oppresse dalla smisurata mole dei conventi [...] erano essi, i conventi a conferire alla città la cupezza sua e il suo carattere [...]. A quell'ora, poi, a notte quasi fatta, essi erano i despoti del panorama. Ed era contro di essi che in realtà erano accesi i fuochi delle montagne, attizzati del resto da uomini assai simili a quelli che nei conventi vivevano, fanatici come essi, chiusi come essi, come essi avidi di potere, cioè, com'è l'uso, di ozio".
Sarebbe ridondante precisare a chi presta la sua attenzione a questo diario da dove sono tratte le righe che ha appena lette. Difficile trovarne di più asciutte, di più penetranti, di meno effimere a dire, sul fondamento di una constatazione prima topografica, quindi contrastiva, quale fosse il principale carattere socio-antropologico della civitas oggetto di osservazione, esemplare sineddoche della grande isola mediterranea cui funge opportunamente da capoluogo. Dietro un potere da conservare o da acquisire, un'inestinguibile brama di ozio.
Oggi ci vuole poco a considerare tale carattere permanente. Esso ha in effetti trasceso gli accidenti storici menzionati in quella rappresentazione letteraria. I durevoli conventi e gli effimeri fuochi contingentemente accesi nell'occasione lì evocata? Mere evenienze. I primi si sono svuotati, ma solo perché consorterie e conventicole di coloro cui, per oziare, serve il potere hanno trovato luoghi più coerenti col tempo per annidarvisi. E ai secondi basta sempre poco per atteggiarsi a festose luminarie, a occhi di bue, a luci della ribalta, a lustrini e così via.
Si tratta tuttavia, allora come oggi, di una civitas. E, forma di vita umana associata, non c'è civitas che non comporti che qualcosa vi si faccia, che vi vigano attività o, perlomeno, loro parvenze. A ciò si aggiunga che, proprio per il suo carattere di comunità umana, in una civitas, il potere non è mai assoluto. Finisce sempre per incontrare limiti, per essere condiviso. Grande che esso si presenti, è insomma un potere relativo. L'ozio che garantisce è parziale. Chi ha molto potere gode di molto ozio. Ma l'opportunità di oziare si assottiglia via via che si scende giù per la scala del potere. Fino a diventare quasi nulla.
Mai nulla del tutto, si osservi. La civitas in questione presenta infatti un dato antropologico di rilievo. Proprio in funzione della brama di ozio, culturalmente costitutiva, non c'è suo o sua componente che non finisca per arrogarsi una porzione, anche minima, di potere e che non la eserciti regolarmente con attitudini di norma violente: incoercibili e, caso mai, solo molto malamente mascherate.
Fosse anche solo il potere di collocare una sedia sgangherata o una arsa fioriera in un marciapiede, come fosse uno spazio esclusivamente privato. O quello di utilizzare l'angolo di una via come discarica dei propri rifiuti. O quello di collocare un mezzo di locomozione personale (qualunque taglia esso abbia: dal SUV al monopattino) come meglio fa comodo e così via. Tutte forme di potere. Miserabili, si dirà. Ma, ci si pensi, perfettamente funzionali agli ozi (miserabili) che esse procurano e che ne rendono perfettamente conto.
Chi, per esempio, lascia la sua auto in doppia, terza, quarta fila, non lo fa per scarso senso civico o per malgarbo: lo fa per smania di ozio e quindi per esibizione di potere. Quegli eventuali quattro passi in più che avrebbe in caso contrario dovuto fare, con la pur modestissima fatica, avrebbero nociuto alla sua considerazione di sé, l'avrebbero qualificato ai suoi occhi e a quelli della sua comunità come, alla lettera, un(a) imbecille.
Come si concilia allora la brama d'ozio che caratterizza nel loro insieme i cives della menzionata civitas con la necessità di fare o perlomeno di farne un sembiante? Come si comportano, quando si trovano obtorto collo a operare?
Anche qui, l'osservazione procura un dato inequivocabile. Trasformano l'ozio in approssimazione. Colmano ciò che sono costretti a fare di inesattezze, imprecisioni, pressappochismi, raffazzonature, abborracciamenti, rabberciature, raccozzamenti. E lo fanno, questo sì, con la massima cura. Ciò che conta è infatti lasciare in proposito un segno inequivocabile: è capitato di fare qualcosa, ma lo si è fatto di cordiale malavoglia.
C'è, in tale attitudine, la marca di uno spregio metafisico, la negazione che un ben fatto, tra gli esseri umani, almeno in tale contesto, possa darsi. E c'è anche l'anatema per chi o per cosa ha turbato l'ozio. Da una prospettiva che considera espressione e comunicazione, si può dire a buon diritto che, davanti al fare, con la sua determinazione a essere approssimativo, il cives di tale civitas scaglia contro ogni eventuale ordine del mondo, contro le nette sfere celesti una sonora e terragna bestemmia: "qui, non come Dio comanda, ma a cazzo di cane!".
Ed è così che, con qualche rimarchevole e segnata eccezione, certo da secoli e, nei tempi recenti, in modo sfacciato e senza eccezione, non c'è cosa in effetti che in Sicilia non si faccia alla bell'e meglio, sans façon, come capita. E a chi, incredulo forestiere, fosse necessaria una visita per constatarlo, sarebbe bastevole solo un giorno per raccoglierne esperienze dirette in quantità.
Appena il caso di osservare, a questo punto, che nella vita civile una generale approssimazione rappresenta l'habitat più favorevole alla presenza e alla crescita del malaffare. Non è per caso dunque che siano divenuti proverbiali i modi del malaffare che prosperano in tale civitas, orientati fondamentalmente a ribadire un potere. Alla luce dell'osservazione da cui si è partiti, essi producono correlativamente un'attitudine all'ozio che, con circolo vizioso, ingigantisce vieppiù le approssimazioni che consentono al malaffare di prosperare.
Condizioni accidentalmente favorevoli all'osservazione rendono spesso palesi i guasti che un'approssimazione sistematica e generalizzata produce ora in un àmbito della vita associata (si metta, lo stato delle strade), ora in un altro (si metta, la rete idrica). Ovviamente, senza effetti correttivi o, meglio, con effetti correttivi sempre approssimativi. Non da oggi, non da ieri, chi avrebbe dovuto curarsi di un aspetto o dell'altro, strappato dal proprio ozio, lo ha fatto approssimativamente e, complice, l'intero corpo sociale, con la miriade delle sue approssimazioni, lo ha coperto e lo copre: chi non arronza scagli la prima pietra...
Per la brama di ozio, l'operosità puntigliosa, l'accuratezza, la ricerca del ben fatto sono dunque attitudini, si vorrebbe dire, sentimenti che, ammesso abbiano abitato tale civitas di tanto in tanto e ormai in tempi lontani (ce ne sono singolari e, a dire il vero, molto sorprendenti prove) devono sempre essere stati importati: così dice, d'altra parte, l'opera citata in esordio, in un suo successivo passaggio.
O, se fortuitamente indigeni (non c'è civitas che manchi di pecore nere), tali sentimenti sono (stati) visti appunto come un'autentica devianza, come una diversità pericolosa per la comunità oziosa. Con esiti talvolta letali, per coloro che se ne sono fatti araldi e che, negli intervalli di un ozio sacrosanto, ciò che era loro capitato in sorte di fare, avrebbero soltanto voluto farlo, scandalosamente, a solitaria regola d'arte.
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