30 ottobre 2024

Lingua nostra (14): "Ultimo" (e, sullo sfondo, come "Lingua loro", "estremo")

Ultimo
 alberga, lo si sa, un'anima da superlativo. Come l'albergherebbe estremo. L'anima superlativa di estremo si è però fatta fantasmatica, nella coscienza di un gran numero di parlanti e di scriventi. 
Sulle labbra o sotto le penne di costoro capita di cogliere, si ponga, un "più estremo". Per esempio, in una sorta di "coccodrillo", presente nell'archivio di una gazzetta qualsiasi e caduto per tale ragione nella rete di un'estemporanea interrogazione di Apollonio, si legge: "Famosi i suoi j'accuse. E l'ultimo, e forse il più estremo, è della fine di settembre". 
A chi correlativamente storce il muso, il giornalista potrebbe sempre opporre una ricorrenza comparabile nei Promessi sposi: "Finalmente, altri casi, più generali, più forti, più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi tra loro, secondo la scala del mondo". 
All'ombra del fallo (eventuale) di una tale autorità, falli al séguito, com'è appena il caso di dire, smettono di apparire tali. E nessuno, ancor meno Apollonio, si scandalizzerà di conseguenza della loro circolazione "a bischero sciolto".
L'anima superlativa di ultimo è al contrario ancora ben viva e, dal culmine che occupa (superlativa, appunto), oppone fiera resistenza a chi volesse gettare ultimo giù dalle scale, come si è fatto con estremo, oggi ridotto a qualificare un più o un meno e non più un'acme. 
In effetti, anche a chi propala più estremo, suppone Apollonio (speranzoso), più ultimo suonerà ancora stridente, al limite della sopportazione. Mai dire mai, tuttavia, nelle vicende linguistiche, né qualificarle come estreme. Alle orecchie di un Cicerone, fantasiosamente di nuovo mondane, espressioni che passano (e non da tempo) come banali parrebbero testimonianze inoppugnabili di un'estrema perdita della ragione. 
Ma tout passe, tout casse, tout lasse e, miracolosamente, la lingua resta sempre la lingua. Malgrado a parlarla siano gli esseri umani, ci sarebbe da dire, e non per celia. Ci provano di continuo, gli esseri umani, a ridurre alla loro misura, infima, tutto ciò che hanno ricevuto in prestito momentaneo (la vita, la lingua...). Ma, costretti come sono nei loro limiti, non ne hanno evidentemente la facoltà. 
Giunti come si è a riflettere sopra ciò che è momentaneo (quindi, umano), una nota ulteriore sopra ultimo capita allora a fagiolo. "La luna e i falò è l'ultimo romanzo di Cesare Pavese": ineccepibile. E ineccepibilmente, nella nota bio-bibliografica che avrebbe dovuto corredare uno scrittarello del suo alter ego, Apollonio vede comparire un "Fare nomi è il suo ultimo libro". 
Con i suoi usi ineccepibili, ultimo fa appunto simili scherzi e tutte le volte che lo si intende o lo si legge applicato a quanto ha fatto un essere umano, se non lo si sa per altre vie, bisogna che ci si chieda se è ultimo per sempre o ultimo, al Cielo piacendo, solo momentaneamente. Se è un ultimo perfetto o un ultimo che si immagina ancora imperfetto, quindi in attesa di (eventuale) falsificazione e di farsi penultimo, terzultimo... 
Insomma e per concludere con l'aneddoto, dopo essersi concesso pratiche apotropaiche delle quali non sarebbe elegante procurare né qui né altrove una descrizione, con calda approvazione di Apollonio, l'alter ego ha proposto per quella bisogna (e, spera, non come ultima o estrema volontà) una formula meno impegnativa, ma non per tale ragione meno veritiera: "Fare nomi è il suo libro più recente". Cambia poco ma, quando niente, un'espressione neutra. Forse un po' più bene augurante. In attesa che, riferito se possibile ad altro, il più recente diventi un giorno ineluttabilmente l'ultimo o l'estremo senza più.

26 ottobre 2024

Spettatore pagante (5): "Iddu - L'ultimo padrino" di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

Il cast di un film è un segnale (commerciale) - è appena il caso di ricordarlo. Come funzionerebbe altrimenti, anche nel piccolo, lo show biz
Fra le altre cose e al pari di altri aspetti (o forse meglio), esso dice come l'opera si indirizzerà e apparirà al pubblico e alla critica, perlomeno nelle intenzioni di chi l'ha ideata e si propone di dirigerla, ma soprattutto in quelle di chi la produce e cerca interpreti che riscaldino il botteghino.
Al riguardo, Iddu - L'ultimo padrino è esemplare (iddu vale 'lui', in siciliano, con pronuncia retroflessa della doppia dentale sonora). Ne sono registi e sceneggiatori i due volenterosi Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, certo non notissimi né presenti al pubblico come autori di pellicole memorabili. Ma, nel loro film, ruoli del massimo rilievo sono coperti da Toni Servillo, Daniela Marra, Barbora Bobuľová, Fausto Russo Alesi e, come idduElio Germano. Di quest'ultimo, romano, va subito lodata la cura nella dizione: non il solito siciliano cinematografico e televisivo, ma, con tocco realistico, una parlata accettabilmente prossima ai modi che siciliano e italiano regionale prendono nell'estremo lembo sud-occidentale dell'isola
Nell'insieme, si tratta di attrici e di attori cui, da qualche anno, il cinema italiano che si vuole d'autore fa appello di norma, se non proprio a rigore. Variamente suddivisi e suddivise, hanno in effetti recitato in film di Bellocchio, Moretti, Sorrentino, Garrone, Martone, Salvatores, Guadagnino, per fare qualche nome di spicco. Non solo nei film di costoro, ovviamente, ma si può dire che, per qualche regista (laureato), c'è in quell'elenco chi rappresenta l'interprete per eccellenza.
Con un cast del genere, Iddu è uscito indubbiamente nelle sale come un film d'autore. Anzi d'autori, visto che, come si è detto, di sceneggiatori e registi, ne ha due. Alla qualificazione contribuisce poi il soggetto, liberamente ispirato a o, per dire meglio, allusivo di una figura e di una vicenda di appena perenta attualità. Ne sono state piene in effetti le cronache giornalistiche. 
Il personaggio che tanto nel titolo, quanto qui e là nella sceneggiatura, viene designato per estrema antonomasia con iddu (oltre che, meno enfaticamente, con Matteo) si ispirerebbe infatti a quel Matteo Messina Denaro, cioè a un siciliano della provincia più occidentale dell'isola, che da una pluridecennale latitanza, vissuta quasi a casa propria, ha regolato e mandato gli affari criminali di un'impresa collettiva che, nel film, se non ci si sbaglia, non viene mai designata con un nome, per motivo di ovvia ridondanza. È in effetti di gran lunga la maggiore, tra le radicate in Sicilia, e la più nota. 
Un protagonista e un tema siffatto, per conseguenza, farebbero di Iddu anche, se non soprattutto un film di impegno civile e come tale è stato di norma presentato da chi ne ha scritto. Ma non ci si figuri perciò che si abbia in proposito a che fare con qualcosa che lontanamente somigli, per fare un esempio, a un classico del genere, come Salvatore Giuliano di Francesco Rosi. Nemmeno mutatis mutandis, come imporrebbero in ogni caso i più di sessanta anni trascorsi tra una pellicola e l'altra.
Tanto realista, socialmente impegnata nella denuncia, dirompente e, a suo modo, narrativamente romanzesca fu la pellicola di Rosi, quanto lirica, intimista e intrisa di sensiblerie è Iddu. Personaggio e vicenda di cronaca fanno infatti al film da mero e lontano pretesto. Anche perché lo sviluppo narrativo, lo si volesse proiettare in qualche realtà (la siciliana inclusa), sarebbe inverosimile e fiabesco. Tetramente fiabesco, ci si intenda. 
Ma i personaggi hanno caratterizzazioni stereotipe, come appunto si conviene a una fiaba cupa. E il film ha il suo nocciolo, crudo e malvagio, nel Padre, un archetipo negativo, ad affrancarsi dal quale, ancora oggi, non si riesce. 
La narrazione prende appunto le mosse dalla presenza di una sorta di orco sanguinario (con rituale sacrificio di un agnello) e ne decreta immediatamente un'assenza che ha i tratti di un'incombenza morale, lacerante e non sanata. 
L'archetipo ha anche il suo oggetto di valore o, forse meglio, il suo totem: un pupu (così nel film ci si riferisce a un bronzo antico allusivo del celebre Efebo di Selinunte). Continuare a possederlo o perderne il possesso non sono circostanze neutre, ovviamente. 
Tra i personaggi, sempre, anche se variamente collegati al nocciolo archetipico, non mancano lo sciocco, la strega e un intrepido cavaliere che, per assecondare l'odierna tendenza culturale, è nel caso specifico di genere femminile: anch'esso o, in modo più pregnante, anch'essa ha una sorta di ambiguo padre dal quale, fino in fondo, non riesce a liberarsi. 
Un tragicomico pulecenella funge da attante mobile. È l'elemento cui plot e intreccio affidano per intero la messa in moto e l'avanzare del racconto. Il personaggio, un campano in Sicilia, è disegnato sull'interprete e l'interprete, consapevole del compito da mattatore e con generosa prova di attore, finisce per gigioneggiare (come gli capita ormai spesso e stucchevolmente). Il personaggio si fa di conseguenza caricaturale. 
Anche per questa ragione il film non decolla, come si dice ormai con metafora aeronauticaAppesantita dalla pretesa di essere in ogni caso una buona mimesi della realtà, l'inverosimiglianza non vi diventa fantasia. Nei dialoghi, le non rare citazioni cólte moraleggiano, più che dare un tono morale. Soprattutto, la pellicola resta asfittica, quanto alla narrazione. 
Qualcuno ha scritto (e forse i registi medesimi hanno dichiarato) che, a proposito di mafia e mafiosi, un mondo asfittico e spento è proprio quanto il film si è proposto, per la prima volta, di mettere meritevolmente sul grande schermo. 
Se è così, ci si può solo rammaricare di un avvenuto contagio. Come non dovrebbe appunto accadere nel prodotto di un'arte, da ciò che si è inteso rappresentare, il tratto asfittico si è trasferito ai modi e alle forme dell'opera. E il risultato è che, attirato in sala dal tema e dal cast, lo spettatore pagante ben presto comincia a sbadigliare, perché si annoia.   

18 ottobre 2024

Lingua loro (48): "Incassare"

Il buono e vecchio ottenere non gode di buona stampa, ormai da tempo. Chi traccia la direzione della lingua e determina il suo futuro lo trova moscio, evidentemente. 
Solo per fare un esempio fantasioso: se il Ministro dell'Economia sottoponesse al Parlamento la proposta di nuova introduzione dell'imposta comunale sui cani (abolita, pare, nel 1974, con esiti testimoniati dal decoro urbano di tutte le città italiane) e, appunto sempre più fantasiosamente, il Parlamento approvasse, il giorno dopo dalle gazzette scritte e orali non si avrebbe come resoconto "Il Ministro Pinco Pallino ottiene l'approvazione della norma bla bla...". Si leggerebbe e si udrebbe invece "...incassa l'approvazione...".
I due lettori di Apollonio sono increduli? I risultati della semplice ricerca in rete delle sequenze "incassa... ha incassato... incassare l'approvazione" faranno sì che Apollonio "incassi" il loro consenso.
Non va diversamente infatti con "il consenso", "l'appoggio", "il sostegno", "il plauso" e, esemplare, "l'endorsement". E fin qui, si può pensare, niente di strano. E niente di strano, una volta assuefatti, se "incassa un pareggio" o "una vittoria" una squadra di calcio, se "incassa un 28" il candidato a un esame universitario, se "incassa il Leone d'oro" una pellicola cinematografica e così via. 
Come prova che la catacresi (un momento di pazienza: a breve ci si torna) è tuttavia in avanzato stato di consolidamento e che, non solo ottenere, ma anche ricevere e addirittura subire rischiano di venirne travolti, adesso "si incassa la contestazione", "la bocciatura", "la disapprovazione", "il rifiuto" di qualcuno. Di conseguenza, uno sportivo "incassa una (sonora) sconfitta", un progetto "incassa un rinvio" o "uno stop" e, sul mercato, l'auto elettrica "incassa un (catastrofico) flop" . 
E siccome la lingua è il quid d'ogni perversione, anche se la locuzione è formalmente identica, ciò che si vuole dire con (esempio autentico) "Meloni incassa la bocciatura politica del salario minimo..." è ben diverso da ciò che si vuole dire con (esempio autentico) "Shell incassa la bocciatura di Credit Suisse". Nel primo caso,  "Meloni [felice] ottiene...", nel secondo "Shell [tutt'altro che felice] riceve...". Oggi incassare è vox media, verrebbe fatto di dire. Si "incassa" di tutto.
Illustrare il tropo ideale che soggiace a questi "abusi" (valeva questo catacresi quando - e fu catacresi - sorse come termine retorico e grammaticale) rischia di essere ridondante: la cassa che procura la base lessicale del derivato incassare non è ovviamente quella da morto. Ed è questa ancora una prova che, come nel caso accademico (modesto e locale) di crediti formativi e di molto, molto altro, ad animare e ispirare una lingua siffatta come lingua di questo tempo è uno spirito di micragna bottegaia.

11 ottobre 2024

Per il centoventottesimo anniversario di Roman Jakobson

Ciò che Roman Jakobson professò nella sua maturità di studioso incoraggia a formulare un'ipotesi: per un essere umano, venire al mondo è la messa in opera di un'intenzione vitale (cioè espressiva) e comunicativa. La sua prima intenzione con una manifestazione. Nel caso di Jakobson medesimo, la manifestazione di tale intenzione avvenne a Mosca nel 1896. 
Né il luogo né il tempo furono ovviamente esiti di una scelta personale. Nessuno può fare come gli aggrada al riguardo e si è obbligati a prendere ciò che capita. Affacciandosi alla vita, che è come gettarsi nel flusso di una catena sintagmatica, si accetta (senza possibilità di rifiuto) una sorta di collasso della paradigmatica. Come se il tutto si verificasse sotto il segno della funzione poetica, senza che dell'ipotetico poeta resti altra traccia. In qual genere poi si inscriverà il componimento, come vi si mescoleranno il comico, l'elegiaco, il tragico e (favorevole un'epoca) perfino l'epico, si saprà irrimediabilmente strada facendo, caso mai, e, a dire il vero, solo a cose fatte per intero. 
Ma da Jakobson ebbero precocissima e piena adesione spirituale il luogo di quella sua prima intenzione realizzata e, in coordinazione con il tempo, ciò che al luogo si correlava culturalmente. E se le vicende della sua vita lo fecero esule più di una volta e titolare, negli anni, di cittadinanze diverse, egli curò infine che rimanesse testimonianza di quella adesione originaria, con un messaggio dal valore emotivo e referenziale al tempo stesso.
Nel 1896, il codice vigente a Mosca denominava 29 settembre il giorno in cui Jakobson nacque. Il codice vigente a Berlino, a Parigi, a Londra, a Roma lo denominava invece 11 ottobre. Effetto del noto divario tra calendario giuliano (allora in uso in Russia) e calendario gregoriano. E buona illustrazione della convenzionalità del tempo cronico. Così l'avrebbe qualificato anni dopo, con apparente pleonasmo, Émile Benveniste, per differenziarlo dal tempo che qualificò come fisico e da quello che qualificò come linguistico. 
Fare emergere e cogliere ordinate differenze nell'espressione umana fu, come si sa, fisima di molti linguisti del Novecento, convinti che proprio nella differenza si dovesse cercare la specificità di quella dote che, inquadrata con i mezzi di qualsiasi scientismo naturalista, non può che parere più che  bizzarra, quando è invece tanto ordinaria da farsi quasi sempre fucina di piatte stupidità fàtiche. 
Jakobson contribuì decisivamente all'impresa della determinazione delle differenze. Si può dire che ne fu il campione. Un indirizzo in tal senso gli era d'altra parte venuto dal magistero del connazionale Nikolaj Trubeckoj, che, ammesso l'avesse potuto e voluto, non ebbe il tempo di riparare nel Nuovo Mondo, come Jakobson fece avventurosamente, quando nel cuore del Vecchio erano evidenti i segni che si era già andati verso il peggio.
Un indice dei nomi presenti in questo diario, se mai lo si compilasse, direbbe che Jakobson, Roman è forse il nome con il maggior numero di ricorrenze (e non sempre per manifestare un consenso da parte di chi lo menziona). Gli fa certamente concorrenza Saussure, Ferdinand de, il cui titolare nacque addirittura nel 1857. Insomma, gente del tempo che fu. 
C'è criterio più chiaro e inequivocabile per sancire l'inattualità di Apollonio e di quanto propone qui, quando si è da un pezzo nel Ventunesimo secolo?
In una conversazione privata di qualche tempo fa e con riferimento ai nominati, da un buon sodale venne ad Apollonio e al suo alter ego il commento: "Torneranno...". L'intenzione era amichevolmente consolatoria. E a suo modo liquidatrice, come sono quasi sempre le consolazioni. 
Con il suo alter ego, Apollonio apprezzò l'intento ma sorrise intimamente del suo metodo e del suo merito. Per lui Jakobson non se n'è mai andato. E con lui, mantengono la loro viva presenza altri i cui nomi non sempre compaiono in questo diario o che non vi compaiono con la stessa frequenza, ma che vi operano attivamente. Non è del resto svanito il gran tema umano che aveva appassionato tutti costoro, in modi e da punti di vista diversi.
Caso mai, ad andare e venire (quindi a tornare, con diversa valorizzazione della marcatezza non tanto dello spazio, quanto della persona: di nuovo, fisime da linguisti) è stata, è e sarà la corte degli orecchianti. Essa regola infatti i propri usi e soprattutto i propri abusi in conformità con gli andazzi.
Ma ci sia o non ci sia folla intorno, in permanente compagnia di Jakobson sta un piccolo novero di persone felici. Apollonio ne fa parte. Come può, naturalmente, e con i suoi limiti, come testimonia la sommessa celebrazione qui officiata.

Nel séguito, un po' a casaccio e senza pretesa di completezza, pagine di questo diario in cui Roman Jakobson fa da (co)protagonista:







[Dall'alter ego giunge ad Apollonio il rimprovero di non avere menzionato qui anche il frutto di un suo modesto impegno. Se ne trova in effetti testimonianza nella colonna che affianca i frustoli, ma forse ha ragione e gli si accorda una ridondanza.]





7 ottobre 2024

Luchino Visconti, araldo di "quella che è..."

In italiano, da qualche tempo, il sistema della determinazione nominale si sta evolvendo. Ancora poche settimane or sono, questo diario lo ha nuovamente documentato: "la Stampa ricorda anche quelle che sono le tre vittime nel Canton Ticino", per esempio. Ma hanno già più di tre lustri acute osservazioni in proposito di Stefano Bartezzaghi. 
Da esse, qualche anno dopo, l'alter ego di Apollonio prese in effetti spunto per un contributo specialistico che provò a collocare il fenomeno recente, in apparenza solo peregrino e frutto di un momentaneo andazzo, in una deriva diacronica plurisecolare: l'affiorare dell'articolo romanzo, come forma della determinazione nominale, a partire da un sistema, il latino, che, senza alcun danno, ne faceva bellamente a meno. Non per celia vi si affermava che nella deriva si vedesse già allora e di nuovo all'opera una "prevalenza del cretino".
Si individuava così, ancora grossolanamente, un vettore del mutamento linguistico dal rilievo pancronico di norma trascurato o, meglio, non (ancora) riconosciuto nella sua forza. Proprio come lo è "le rôle de la betîse dans l'Histoire", secondo Raymond Aron. A tempestiva conferma dell'ipotesi, venne il successivo reperimento di un dato e l'alter ego di Apollonio lo offrì a una considerazione più vasta della specialistica in un intervento divulgativo sul tema. 
Eccolo qui ripreso (il corsivo è aggiunto per segnalare ciò che è pertinente): "Un gruppo di studiosi fascisti docenti nelle Università italiane sotto l'egida del Ministero della Cultura Popolare ha fissato nei seguenti termini quella che è la posizione del Fascismo nei confronti dei problemi della razza" si legge in effetti, come esordio, nel primo fascicolo (agostano) della prima annata (1938) della rivista La difesa della razza. Non serve altro, qui si opina.
Il dato mostra altresì freddamente come lo sviluppo in questione non sia cominciato proprio ieri. Se è stato segnalato nella letteratura linguistica negli ultimi decenni, è solo perché esso è frattanto divenuto un fenomeno macroscopico. Oggi è visibile a chiunque presta un'anche modesta attenzione alle condizioni del mare dell'espressione e della comunicazione in cui si trova immerso. In una pausa delle stesura di questo frustolo, per esempio, Apollonio si è fatto spettatore di un notiziario teletrasmesso e, senza intenzione particolare di ricerca, ha udito dalla viva voce di intervistati e intervistate parecchie ricorrenze della perifrasi. 
Per dirla in altro modo figurato: la frana è ormai inarrestabile, a parere di Apollonio, ma i sassolini che la segnalavano come prossima avevano cominciato a rotolare per la china già molto tempo fa. Ed è oggi appunto chiaro (facile senno del poi) che si trattava di sassolini molto significativi, in funzione del criterio pancronico cui si è fatto riferimento. Una lettura stravagante procura adesso un'ulteriore stagionata e pregnante testimonianza ad Apollonio, che è felice di condividerla con i suoi due lettori. 
Erano stavolta i primi anni Sessanta del secolo scorso: un'epoca di "intellettuali". Diversamente da oggi, letteratura e cinema, anche per le loro implicazioni politiche e di vita civile, agitavano gli interessi del pubblico di quotidiani e rotocalchi. 
Nel loro Operazione Gattopardo. Come Visconti trasformò un romanzo di "destra" in un successo di "sinistra" (edizione più recente, Feltrinelli, Milano 2023), Alberto Anile e M. Gabriella Giannice riferiscono appunto di numerose interviste concesse alla stampa da Luchino Visconti nel corso della lunga gestazione del suo film ispirato al romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. 
In una di esse, secondo la citazione di Anile e Giannice, il regista si sarebbe espresso così (anche qui il corsivo è aggiunto): "Non conosco ancora l'esatto binario su cui correrà il mio Gattopardo [...]. Il nome mi affascina di per se stesso, come un aroma forte di odori e di sensazioni. Comunque, mi lascerò guidar da quella che è l'improvvisazione del momento, ma quello che ho in mente di trattare a fondo è la non accettazione dell'immobilismo storico del Lampedusa".
La filologia impone cautela. Il testo che ora si legge è frutto di due mediazioni: anzitutto, quella di chi trascrisse a suo tempo l'intervista; oggi, quella di chi ne riporta la trascrizione. Potrebbe quindi albergare interpolazioni. 
Non stupirebbe tuttavia che Visconti fosse allora all'avanguardia e dettasse la tendenza anche quanto agli usi linguistici: il "conte rosso", così era detto il nobiluomo a quei tempi e con ragione. Di quel colore politico e all'avanguardia, tra cultura, spettacolo e vita pubblica, lo era in tutto, da qualche decennio e in particolare in quei frangenti. 
E a proposito della direzione della sua deriva e di ciò che ne sarebbe seguito, fulminante sarebbe stata di lì a poco l'amara opinione di Ennio Flaiano (riferita da Francesco Piccolo, nel suo La bella confusione, Einaudi, Torino 2023): "Fellini non mi interessa più perché va verso la sartoria. Visconti perché va verso l'arredamento". 
Si dirà di nuovo figurata tale definizione, ma essa è precisa e appropriata anche quanto alla perifrasi "quella che è...". Dietro l'apparenza di raffinatezza, già allora manifestazione (preparatoria ed efficace) di manieristico cattivo gusto nell'arredamento del discorso. 


4 ottobre 2024

"Linguaggio", "significato", "noi" nella letteratura (divulgativa) delle Scienze: un esempio

Apollonio legge di tanto in tanto libri (divulgativi) come quello di cui qui si dà la copertina. Lo induce o, meglio, lo costringe a farlo il suo alter ego, con il pretesto che sarebbero letture necessarie al suo lavoro. Forse fu modicamente vero un dì. Adesso anche l'alter ego bighellona curioso tra le carte altrui, come farebbe intorno ai recinti dei cantieri stradali. Di che lavoro si tratterebbe mai? Ma si lasci all'anziano l'illusione d'essere ancora attivo. 
In effetti, dalla varia prospettiva delle Scienze (il maiuscolo vale a dire "le vere"), si tratta di libri pieni di riferimenti alla facoltà espressiva e comunicativa degli esseri umani. Questa vi è designata con regolarità come "linguaggio". 
Va detto che si tratta di una scelta (insegnava Roman Jakobson: c'è qualcosa nella lingua che non lo sia?). Forse chi la compie non ne è consapevole e ritiene che, fuor di linguaggio, non potrebbe dire altro: faccenda non da poco. Ma non è questo tuttavia il tema del frustolo, che vale invece da confessione di una défaillance.
"Linguaggio" o come diavolo lo si voglia chiamare, Apollonio si vanta di un interesse e di una curiosità in proposito ormai più che cinquantennali. Ma è probabile sia solo vacua vanteria, da parte sua. Riconosce infatti molto poco dell'oggetto del suo interesse e della sua curiosità nelle menzioni del "linguaggio" e nei riferimenti al "linguaggio" che fanno libri come l'esposto. Né l'aiuta in proposito una sortita come "Se guardiamo al linguaggio come uno strumento, un utensile cognitivo..." che trova nel libro preso da campione accidentale.  
Sarà perché, come ostacolo, in Apollonio risuona ancora l'opinione di un vecchio arnese. Émile Benveniste, inveterato uomo di lettere, richiesto di un parere da una prestigiosa rivista di psicologia, sentenziò, or sono quasi settanta anni: "...il paragone del linguaggio con un strumento [...] deve riempirci di diffidenza, come ogni affermazione semplicistica nei confronti del linguaggio". Ciarpame da Secolo breve
Non va meglio poi con significato. Sempre nello stesso libro si legge "Noi esseri umani siamo quello che siamo in quanto tendiamo costantemente alla ricerca di significato". Apollonio non solo non capisce cosa qui significhi significato, ma non ha nemmeno chiaro se, nel caso specifico e anche altrove, visto che il libro, di significato, fa scialo, significato valga come termine o come parola. 
La distinzione è sempre utile nel discorso ed è capitale (o dovrebbe esserlo) in quello scientifico. Se ne è paradossalmente debitori, si pensi, a un sopraffino cultore della vaghezza: Giacomo Leopardi. Ma essere vaghi come si deve, nella lingua o, se si preferisce, nel "linguaggio", non è in effetti faccenda da poco e necessita di una gran precisione.
Di conseguenza, Apollonio precipita in un'ebete stupefazione quando, proseguendo, legge sotto le medesime penne: "Considerando allora la scena del film di Kubrik [2001: A Space Odyssey, naturalmente] è probabile che vi sia un momento zero che precede l'uso, da parte dello scimmione, dell'osso del femore come una clava. Quel momento zero ha una connotazione originaria: mentre denota l'emergere del comportamento simbolico, segna anche l'avvento della differenziazione umana. Il fatto che un osso, che potrebbe essere solo un osso, a un certo punto diventi un'altra cosa dipende dalla pausa di riflessione che lo scimmione mostra di fare. Il tempo che intercorre da quando l'animale preleva l'osso, osservandolo attentamente mentre lo stringe nella mano, a quando passa all'azione, un tempo abbastanza lungo che lo scimmione impiega a guardare l'osso, girandolo e rigirandolo, è il tempo del sensemaking. È il tempo in cui avviene una traduzione da un oggetto, dalla cosa in sé, al significato della cosa". 
Ma questa, si sa, è Scienza (divulgata) ed è ovvio che essa superi le capacità di comprensione di una persona semplice come Apollonio che, senza pretendersi "scimmione", ha una cosa sotto i suoi occhi e tra le mani: il libro; lo gira e rigira e non riesce a farlo passare da oggetto a "significato"; non sa quindi cosa farne. E questo frustolo testimonia appunto impietosamente del suo fallimento.
C'è da dire, a sua giustificazione, che egli non padroneggia le diavolerie tecnologiche che, davanti agli Scienziati e alle Scienziate, squadernano oggi i cervelli di coloro che parlano (e addirittura pensano) come fossero libri aperti. Forse perciò è incapace di immaginare correlativamente le scene aurorali dell'umanità. Non solo prese in prestito dal cinema o dalla letteratura (che fanno in ciò il loro onesto mestiere), le trova infatti spesso evocate e ricostruite, come fossero in visione diretta, in libri come il qui esposto, spesso ma non sempre con mediazione introduttiva di un "probabilmente". 
Si pensi: nella sua cruda naïveté, Apollonio trova da sempre esilarante anche la fola freudiana dell'orda primitiva. È uso in effetti praticare solo analisi minute e alla buona solo di cose che osserva e che il suo modesto mestiere gli consente di mettere in relazione. Per esempio: le innumerevoli ricorrenze della persona grammaticale in Se questo è un uomo di Primo Levi. 
E non ne ricava naturalmente un'idea generale di come sia venuta fuori e di cosa sia la facoltà di esprimersi e di comunicare degli esseri umani. Tanto meno il gran pensiero che, culla moral-materiale dell'umanità, sia stato "uno spazio noicentrico", come "spazio condiviso che implica necessariamente la primogenitura del noi": è quanto in effetti sostiene d'emblée la pubblicazione qui presa a campione, sul fondamento di squadernamenti cerebrali dall'indiscussa affidabilità sperimentale. Ma "noi"?
A fatica e distinguendo tra tanti tipi, funzionalmente opponibili non nel "linguaggio" ma in modeste ricognizioni testuali, Apollonio trae solo qualche ipotesi sul modo, intricato e sistematico, con cui la lingua costruisce la panoplia (tale gli appare in effetti) della quarta persona grammaticale nel discorso: qualche esempio qui, qui, qui, qui, qui, qui... E osserva che essa talvolta include, talaltra non lo fa; talvolta cela la persona (fino a qualificarsi come impersonale), talaltra la gonfia; soprattutto, spesso imbroglia ed è inoltre pronta a usi intollerabilmente paternalistici. 
E, ci si faccia caso, proprio uno dei tanti e differenti "noi" marca stilisticamente e ideologicamente i libri (divulgativi) che, potenza delle Scienze, abbandonata la fredda non-persona che dovrebbe caratterizzarne e garantirne il discorso, sono sempre in grado di dire a "noi" cos'è il "linguaggio", chiarendoci così il "significato" dell'essere umani. Come fa il libro in questione: simpaticamente, moraleggiando e in quattro e quattr'otto. Si vuole mettere?