È un prestito dall'inglese ma di rimbalzo. In inglese, alla famiglia di parole cui manager appartiene si assegna infatti un'opportuna relazione con l'italiano. Al fondo, c'è ovviamente ciò che c'è alla base di mano e, tra i parenti prossimi di manager, si contano maneggiare, maneggio e maneggione.
Da decenni stabilmente insediata nella lingua del sì, manager è parola il cui uso attraversa periodicamente fasi parossistiche: per un àmbito importante della società italiana, una fase parossistica del ricorrere di manager è certamente (o si avvia a essere) la pressantemente presente, come si sa.
Come parola, manager interpreta peraltro alla perfezione una tendenza caratteristica della modernità putrefatta: nella prassi di qualsivoglia attività, il trasferimento del potere di orientamento e di decisione da chi è impegnato direttamente nel fare a chi amministra tale fare (o pretende di amministrarlo) sulla base di competenze di gestione non meglio precisate (e del resto, imprecisabili).
Come tratto socio-antropologico, tale tendenza, nel fondo burocratica al più alto grado, fa parte di un generale quadro di piccolo-borghesizzazione ideologica e di proletarizzazione economica della corrente civiltà, ambedue indizi della sua natura sostanzialmente totalitaria. Se Birkenau fosse oggi, insomma, per ogni sua baracca, non di Kapo si parlerebbe, ma di manager.
Culturalmente, la tendenza individua invece l'attitudine all'elusione delle concretezze problematiche dell'operare umano. La soluzione di queste ultime s'immagina ottenuta per semplice proiezione sul livello, che si presume superiore, di un'astratta capacità della loro gestione.
Del resto, l'attitudine può avere realizzazioni iterate ad libitum: la gestione di un'attività può essere attribuita a un(a) manager, la gestione dell'attività del(la) quale può essere attribuita a un(a) manager e così via. Una volta messo in moto il meccanismo, è praticamente certo che chiunque finisca per trovarsi tra gli amministrati da un(a) manager, senza peraltro si dia la possibilità di risalire per tale via in modo determinato al(la) Grande Manager: come già prefiguravano gli incubi della modernità matura, lo schema che ne sortisce è infatti labirintico e manager, eventualmente solo di se stesso/a, per contagio finisce per divenire - nel progetto - ogni essere umano.
Rinunciando intelligentemente, com'è noto, all'amministrazione del creato, il buon Dio (e ci si scusa per la formulazione: allo stato, difficile servirsi di una più corretta politicamente) ha infatti tenuto per sé solo la basica funzione di creatore. Manager è allora designazione d'una figura e d'una funzione che non si sbaglia a definire come "umana, troppo umana".
Moralmente, di conseguenza e per concludere, tra i tipi umani, il modello cui la parola manager è funzionale favorisce al massimo grado e in maniera ineluttabile l'emergere sociale di maneggioni/e d'ogni fatta (e, nel caso di management riflessivo, l'emergere in ciascuno/a degli aspetti più ignobili della propria personalità).
In questo senso, grazie alla sopra menzionata correlazione etimologica, per chi sa penetrare la parola manager, il suo largo uso e il suo diffondersi nell'espressione del momento restituiscono come sempre il processo socio-antropologico, economico, culturale e morale alla crudezza, infine solo comica e meschinella, della sua lampante, universale verità umana.
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