Monitoraggio, Apollonio ha l'età per poter dire di averla vista crescere, come parola. Con raccapriccio, per gusto suo. Lo si perdoni. Intolleranze, appunto.
Sul principio, la si sentiva circolare, monitoraggio, per gli ospedali o in fabbrica. Sapeva di formaldeide o puzzava di oli combustibili. Lingua speciale, da medici o da ingegneri che si volevano o dovevano dare un tono, con un forestierismo sottotraccia.
Ma si vuol mettere la tecnologia? È tutto là: i valori della pressione del degente o il flusso di produzione della catena di montaggio. Tutto là, sul monitor, che, in virtù d'un appropriato programma di controllo, se qualcosa non va come dovrebbe, mette in guardia, avvisa: "Bip... bip... bip...".
Col suo nome strano ma di ritorno (quasi un parente vissuto a lungo all'estero), l'apparecchio (e il suo semplice sistema) aveva fatto la sua comparsa anche in contesti diversi: studi televisivi, aeroporti e stazioni ferroviarie.
Fu però il suo dilagare in prassi professionali e sociali connesse con la sorveglianza, in istituzioni repressive (ospedale, carcere, fabbrica) che un archeologo della moderna civiltà occidentale pose sotto l'etichetta di Surveiller et punir, a essere decisivo per il successo linguistico (e quindi ideologico).
L'ideologia della sorveglianza, non quella della comunicazione o dell'informazione, aprì infatti la porta alla famiglia lessicale dei derivati di monitor: monitoraggio, appunto, monitorizzare, scarsamente fortunato, e monitorare: un verbo formalmente imbarazzante per i parlanti, quest'ultimo, ancora fino a qualche tempo fa, in funzione di modi, tempi e persone.
Adesso monitoraggio ha il suo posto nei salotti dell'espressione italiana che si dicono buoni, anzi, ottimi. Non puzza più. O, forse, i nasi si sono accostumati al suo puzzo e lo trovano un olezzo. Non così quello di Apollonio, cui appunto fa un effetto urticante.
E non importa a nessuno che, sotto sotto, come parola, la si potrebbe persino tenere per pericolosa esponente della quinta colonna che diffonde nell'idioma di Dante la peste anglica.
E non importa a nessuno che, sotto sotto, come parola, la si potrebbe persino tenere per pericolosa esponente della quinta colonna che diffonde nell'idioma di Dante la peste anglica.
Come a nessuno importa - e la cosa è ben più grave - che, come parola, pare l'emblema di un'epoca decrepita che, nel delirio di una insonnia morbosa e inquieta, brama di tenere tutto sotto sorveglianza e, col pretesto, sta seppellendo ogni libertà sotto la montagna delle sue paure. La punizione che infligge a se stessa è, appunto, la sorveglianza: la coazione al monitoraggio continuo e di tutto.
Nella lingua di chi cavalca l'andazzo (linguistico), per via di figura (ché di metafora si può a buon diritto parlare e di metafora avviata allo stato di catacresi: abuso, appunto), tutto è monitorato infatti, tutto è già o deve diventare oggetto di monitoraggio: il corso dei torrenti, la produzione dei ricercatori, l'uso del contante e quello delle parolacce, la frequentazione di musei o di aree urbane equivoche, la tendenza all'obesità, l'incidenza dei fenomeni di discriminazione di genere negli asili nido, l'ingresso di estranei nelle aree di pertinenza condominiale, il sonno del pupo e così via.
E non c'è fattaccio o fatterello pubblico che con la sua evenienza non determini, nei responsabili o in coloro che si candidano come "esperti" e pronti per la conseguente istituenda "commissione", la decisione di mettere all'opera, anzi, di "porre in essere un attento monitoraggio a 360 gradi delle criticità".
[Capitasse, sul tema (che lo merita), un quasi già qui composto "sommesso commento sul Moderno", a venire.]
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