"...in un contesto che si sta disfando" dice il simpatico e garbato conduttore del programma televisivo d'un canale culturale della RAI, al cospetto del professore d'università di turno che, forse anche perché straniero, non fa una piega.
E dopo pochi secondi, di nuovo: "...si sta disfando". Per lui, evidentemente, è questa, con naturalezza d'espressione, la forma del gerundio di disfare. Gliene si vorrà per questo? Si sarebbe ingenerosi, oltre che insopportabilmente pedanti. Se lo si interrogasse in proposito, quel conduttore, certamente sarebbe capace di compitare la forma che le grammatiche riferiscono come corretta e, informato della ragione dell'interrogazione, direbbe stupefatto: "Io, disfando? Ma quando mai...". E invece sì. Testimone Gilles Pécout, il professore foresto, tra il ventisettesimo e il ventottesimo minuto della trasmissione (tema, quel pericoloso scavezzacollo di Gioacchino Murat) peraltro molto ben fatta, divertente e istruttiva.
Un'interrogazione grammaticale è però cosa ben diversa dell'attività di parola. Spesso i censori se ne scordano. Non sono i soli, del resto; ci sono scienziati che dicono di studiare appunto scientificamente come son messe le parole nel cervello umano giocando a farne dire un po' alle loro cavie, secondo vari stimoli, e ci sono filosofi che li prendono sul serio. Ma s'è mai visto qualcuno che, fuori degli esperimenti scientifici organizzati scientificamente da quegli scienziati, abbia simili comportamenti? Cosa studiano allora scientificamente quegli scienziati? La lingua? C'è da dubitarne. Una deliziosa fantasia, loro e dei filosofi che ci credono, piuttosto.
Appunto, con la funzione metalinguistica in primo piano (e in un primo piano distorto da un esplicito insegnamento e apprendimento normativo o da un'esplicita richiesta) un'interrogazione grammaticale è però cosa ben diversa dell'attività di parola, dove non è che la pratica valga più della grammatica (come dicono i grossolani) ma la grammatica - rigorosissima - ha vie sistematiche che il grammatico (quello delle regole) conosce poco (o capita che nemmeno conosca).
A chi, del resto, non è venuto fatto, parlando, di disfare un'eccezione: da bambini, e prima di venire traviati da maestre e maestri, a bizzeffe. E Apollonio ricorda sempre con struggente tenerezza un "Aspettami papà, vieno" che, lanciato da un verone del paterno ostello, carezzò le sue orecchie sono ormai forse troppi anni. Disfare è poi più di un'eccezione, è una collezione di eccezioni. Come quel fare su cui è fatto ma che tutti si rispetta perché se si disfa fare come si fa?
Nel caso specifico, poi, non c'è da farla lunga, come la sta facendo Apollonio. La faccenda del "disfando" si fa lungo linee chiare e ben note ai filologi: tendenziale regolarizzazione del paradigma come riflesso particolare dell'analogia. Gran motore del mutamento linguistico, l'analogia. Una forza che - i parlanti che ne vengono "agiti" raramente se ne rendono conto - le lingue (soprattutto in superficie), le disfa e le fa. Con il tempo e nella storia.
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