Affiora qui e là in questi giorni, anche in scritti peraltro commendevoli di sodali di Apollonio, la rivendicazione dell'utilità (sociale) dell'otium. L'intenzione è buona ma di buone intenzioni, dice l'adagio, è lastricata la via dell'inferno. E ricondurre anche l'otium all'utile, con la scusa di giustificarne l'esistenza e di redimerlo così nella considerazione del mondo, è per sostanziale paradosso condannarlo all'inferno di un assoluto ideologico e alle sue pratiche perverse e diaboliche.
Dell'esistenza umana nel mondo, fin dal momento in cui essa ha lasciato tracce intellegibili, non si può dire che non sia stata, in un modo o nell'altro, orientata da fini di (apparente) utilità e da fini che, chi li aveva (perché non c'è fine che non risieda in un soggetto che se lo pone come tale), immaginava coincidessero con i propri interessi (interesse al benessere, alla sopravvivenza e a ogni altro agio: per es. a godere dell'ozio; si badi bene, dell'ozio; l'otium è altro).
Messa pure da parte ogni considerazione sulla frequente fallacia di simili prospettive (i disegni umani non sbagliano sempre, che sarebbe pure una certezza; sbagliano senza che si possa sapere con certezza quando sbaglieranno e i conti si fanno impietosamente quando l'imponderabile errore è ormai fatto), la pacifica, onesta, condivisibile constatazione dell'orientamento umano all'utile diventa ideologia (e pericolosissima ideologia) nel momento in cui fa dell'orientamento a tale fine il principio unico non solo dell'agire degli esseri umani nel mondo (che sarebbe già esagerato) ma della loro intera esistenza. Esistere sarebbe concepire, avere il fine del conseguimento di un utile e orientarsi verso esso. E l'essere umano una macchina conseguente, come se l'utile come fine fosse in fin dei conti l'essenza e il fine dell'umanità.
Come tutte le idee che assolutizzano un aspetto dello sfaccettato insistere dell'umanità sulla terra, anche questa è perniciosa e funesta, oltre che di rara volgarità. Può capitare che talvolta, agghindata per le feste e avanzando con sussiego tra cortine fumogene, essa frequenti i raffinati salotti delle due culture, tanto l'umanistica quanto la scientifica, e che sia faticoso smascherarla. Uno stato delle cose tale da ispirare, insomma, il rovesciamento teoretico di un vieto luogo comune morale. Non "il fine giustifica i mezzi" ma gli scarsi mezzi di cui dispone, di norma, l'ingegno di chi prova a farsi una ragione dell'esistenza e dell'agire umani giustificano l'incontrollato proliferare dei fini e dei fini orientati all'utile, in solo presunti tentativi di spiegazione.
L'otium (come altro che qui non si elenca, per evitare corrività e soggettivismi, e che i due lettori di Apollonio potranno integrare come a loro piacerà) non è dunque utile perché non è riconducibile alla categoria dell'utile. La delimita anzi, come il termine marcato e positivo di un'opposizione, il cui altro termine è appunto, come negazione della sua marcatezza, il negotium. Qui, e non in riferimento all'otium, l'utile e le prospettive che mirano al suo conseguimento hanno un ruolo importante. Non da sole, peraltro.
Ed è dunque per una ragione teoretica (o di etica della conoscenza, se si vuole), prima che per banali ragioni morali (e ce ne sono molte, banalissime, che parlano al suo cuore ma che qui è giusto tacciano), che Apollonio non condivide le argomentazioni, pur commendevoli nelle intenzioni, di quei suoi sodali (e di altri, che Apollonio teme meno puri di cuore) quando capita che difendano come infine utili le manifestazioni dell'otium contingenti e, attualmente, in via di grave deperimento nella considerazione universale.
Di ciò che non serve a nulla va invece detto apertamente e con onestà che non serve a nulla e che proprio in questa assenza d'utile risiedono forse per la gran parte il suo valore e il suo pregio.
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