Gentile sodale, in questi crudi giorni della nuova estate, con gli Amici della domenica pronti a dar nuova prova d'essere ormai di bocca buona, provveda pure a slittare il badge e (come il mite Oblomov) sopporti con mansuetudine: si sta solo tentando di introdurLe un problema grosso come una casa. Dopo la cinquina, giovedì prossimo (Befana estiva), qualcuno farà tombola.
30 giugno 2011
23 giugno 2011
Dall'ultimo banco, il buon Nando (2)
Cinquantotto secondi di una lezione di Leonardo Sciascia, un maestro siciliano, giustamente celebrato e oggi, ancor più giustamente, molto rimpianto.
Il buon Nando arrivava in età scolare proprio negli anni in cui il giovane maestro prendeva stabile servizio nel Parnaso intellettuale nazionale.
Seduto sul banco dell'ultima fila, solitario e ben più che un po' scemo, Nando ne ha ascoltato l'insegnamento e ne ha ripetuto la classe infinite volte. S'è applicato, non si è distratto, ha letto i libri. Niente da fare: sempre bocciato.
Così, a proposito di quei cinquantotto secondi, per timidezza ha rimandato giù, anno dopo anno, una domanda che gli arrivava sulle labbra, certamente cretina: "E va bene, signor maestro, Lei, si vede da come parla, è tanto intelligente: come potrebbe non avere ragione? Le idee, è vero, muovono il mondo. Ma è proprio certo che, umanamente e un po' a casaccio, non lo facciano sovente nella direzione del baratro?"
Il buon Nando arrivava in età scolare proprio negli anni in cui il giovane maestro prendeva stabile servizio nel Parnaso intellettuale nazionale.
Seduto sul banco dell'ultima fila, solitario e ben più che un po' scemo, Nando ne ha ascoltato l'insegnamento e ne ha ripetuto la classe infinite volte. S'è applicato, non si è distratto, ha letto i libri. Niente da fare: sempre bocciato.
Così, a proposito di quei cinquantotto secondi, per timidezza ha rimandato giù, anno dopo anno, una domanda che gli arrivava sulle labbra, certamente cretina: "E va bene, signor maestro, Lei, si vede da come parla, è tanto intelligente: come potrebbe non avere ragione? Le idee, è vero, muovono il mondo. Ma è proprio certo che, umanamente e un po' a casaccio, non lo facciano sovente nella direzione del baratro?"
Corso di scrittura
Ancora col tragico pretesto di Primo Levi (e, sullo sfondo, di Fëdor Dostoevskij, naturalmente), il ridicolo d'oggi, per violento chiaroscuro.
Sul fondamento di qualità innate, Auschwitz (dove scrivere era impossibile) fu la sua paradossale scuola di scrittura: efficacia enorme, esiti memorabili. Strano che a didatti e pedagoghi della penna non sia ancora venuto in mente di proporne un'edizione a dispense, da vendere in allegato a un quotidiano.
Apollonio ne suggerisce il marchio: Io Häftling.
Apollonio ne suggerisce il marchio: Io Häftling.
22 giugno 2011
Esordi e proporzioni
21 giugno 2011
"Commettere questo atto..."
Tre minuti e ventotto secondi: "Non sapevo ancora... [distoglie lo sguardo dall'interlocutore e lo volge a sinistra, poi torna a guardarlo] di essere in grado di... [abbassa gli occhi] commettere questo atto [alza di nuovo lo sguardo] dello scrivere...". Tre minuti e trentaquattro.
Sono più o meno sei secondi di una risposta che Primo Levi dà a Luigi Silori a proposito del suo esordio come scrittore. Fanno parte di un'intervista televisiva trasmessa il 27 settembre 1963. Su queste parole ha richiamato l'attenzione giorni fa Domenico Scarpa, sulla stampa, fermandosi a valutare brevemente quel commettere.
Rivedere l'intervista e attardarsi sul passo è facile, oggi. Si può di conseguenza verificare che la sottolineatura di Scarpa è opportuna. Sul proferimento di quel commettere, Levi ha un attimo di esitazione. Come qualcuno che sta confessando una colpa, smette di guardare negli occhi chi ne ha sollecitato le parole. Abbassa lo sguardo, con un gesto trasparente di pudore, se non di vergogna.
La penna di Levi, scabra, essenziale, precisa, avrebbe certo prodotto il chiaro e immediato scrivere: "Non sapevo ancora di essere in grado di scrivere". Al posto di scrivere, parlando, gli affiora invece sulle labbra un'espressione abnorme: commettere questo atto dello scrivere; prolissa (cinque parole al posto di una), molto marcata e, al tempo stesso, come cautelosa. Che vuol dire? Un paio di preliminari osservazioni grammaticali saranno utili.
Scrivere, come si è visto, è il nocciolo di tutto e la scelta che sarebbe stata piana e non-marcata. Scrivere, nome del verbo, proietta allora anzitutto fuori di sé la sua natura nominale. Lo aiuta per questo l'articolo determinativo. Scrivere diventa così lo scrivere. Evidentemente, l'articolo non basta. Viene fuori di conseguenza un'ulteriore stampella nominale, correlata col fatto che scrivere è un agire. Con atto, quanto era implicito e parzialmente esplicitato dall'articolo diventa così ancora più esplicito. Lo scrivere è diventato a questo punto l'atto dello scrivere. L'atto è stato compiuto, nel caso specifico. Se ne sta appunto parlando: è Se questo è un uomo. È un dato oggettivo della realtà. Lo si può mostrare. Se ne possono prendere le distanze, ma lo si fa rivendicandone al tempo stesso la prossimità all'io che parla. Lo si dota così dell'adeguato aggettivo dimostrativo: questo atto dello scrivere. Resta il fatto che scrivere è in ogni caso e ancora un fare. Lo si è ingabbiato e solidificato in una rigida espressione nominale, provvista di un determinatore (come lo), di un classificatore (come atto), di un modificatore rideterminante (come questo). Che ne è, a questo punto e in un'espressione del genere, della sua natura processuale? Come lasciare che il processo emerga e che se ne possa indicare il soggetto? Soccorre allora l'appoggio di commettere, uno di quei verbi che Maurice Gross definiva appunto "supporto". Esso si presta alla costruzione di molte espressioni. Queste sono però di norma connotate in modo eticamente negativo: commettere uno sbaglio, un illecito, un crimine, un furto, uno stupro, una violenza, un assassinio. Sta qui la radice linguistica della nota di Scarpa, che vede in quel commettere un tratto della "pacata ironia" di Levi. Lo scrittore, secondo il critico, è consapevole e vuol dire non di aver scritto, ma di avere "commesso" Se questo è un uomo: un'opera che, rompendo il silenzio e le convenzioni, graffia positivamente la quieta farisaica coscienza del mondo moderno.
Apollonio concorda. Trova però che quell'espressione dica ancora qualcosa. Con la sua aria dimessa e perversa, essa è soprattutto eufemistica (si pensi all'esemplare commettere atti impuri, innescatore di infinite fantasie adolescenziali, o all'altrettanto esemplare commettere un atto insano per suicidarsi). Come molti eufemismi, commettere questo atto dello scrivere si presenta infatti come un complesso giro di parole che, in fondo, serve a nasconderne la sola che si vuole evitare di proferire bruscamente, nel caso specifico, chiudendola dentro una serie complessa di scatole grammaticali. Adoperati per non evocare, col vero nome, ciò che atterrisce o di cui si ha onta, gli eufemismi finiscono però per sottolinearne l'oscura fascinazione.
Sembra così ad Apollonio che in quel minuscolo passaggio siano emblematicamente e celatamente rappresentate l'ironica tragedia di Levi e la sua musa lacerante, la musa di un uomo condannato a scrivere e che scrisse appunto sempre come uomo e mai come scrittore. Del resto, in quell'intervista, Levi parla da uomo e non da scrittore.
Ci sono scrittori (e sono la maggioranza) che, non si sa come, non si sa perché, finiscono per essere scrittori prima di uomini. L'impressione che danno è di scrivere con e per soddisfazione del proprio sé. Ci sono poi gli uomini e accade a qualcuno d'essere condannato a scrivere. Un uomo che scrive prova anzitutto vergogna di scrivere, come si prova vergogna della propria condanna. Ne prova di più se gli accade di sospettarsi vittima di una fallace impressione, comune in un mondo in cui chi scrive lo fa da scrittore. La fallace impressione di scrivere per e di sé medesimo, quando invece, da implacabile osservatore (se non da scienziato), sta solo provando a chiarirsi, descrivendolo e oggettivandolo nella parola scritta, il mondo come esso gli s'è manifestato: un'esperienza orribile, nuda a Buna-Monowitz, agghindata altrove, e pure l'unica che si ha e che, dunque, bisogna essere capaci di trovare, se non amabile, almeno non detestabile.
Ma solo fino a un certo punto. E sta qui, suggerirebbe infine Apollonio a Domenico Scarpa, il mistero profondissimo delle parole che ha avuto l'acutezza di sottolineare. Abbassa lo sguardo Primo Levi, di fronte al suo interlocutore. Sembra una crisi della timidezza che fa dire a chi l'ha conosciuto quanto fosse delicato e sommesso il suo conversare. Forse lo fa invece (o nel contempo) perché sa che sarà per una volta sfrontato, tanto da dovere ricorrere a un eufemismo, a dire il vero, stilisticamente pesante, per esprimere il nocciolo forse più personale del suo discorso, per dire che molte volte egli ha provato a resistere alla condanna e s'è trattenuto dal commettere l'atto impudico, impuro, insano e, infine, blasfemo, dello scrivere che, infine, ha commesso. Non c'è del resto un solo libro che, lo si sa da migliaia di anni, merita d'essere stato scritto? E chi ne è l'autore?
Dice tutto questo da "impiegato" cui, confessa, piace narrare oralmente la sua picaresca avventura. Ma scrivere? E se fosse un oltracotante dissacrare? Lo dice in un discorso tenuto a casa sua, tra le mani un giocattolo del figlio e alle spalle una modesta libreria; in un discorso che oggi, col senno del poi, suona, per chi lo vuole intendere, come vaticinio terribilmente premonitore.
"Non sapevo ancora di essere in grado di commettere questo atto...". Ventiquattro anni dopo, nei medesimi luoghi, prima di fermarsi sull'impiantito, per i pochi attimi concessi a un uomo che, definitivamente, non dovrà mai più vergognarsi di scriverne, Primo Levi ha forse perfettivamente saputo di esserne stato e, al tempo stesso, di non esserne più stato capace.
Sono più o meno sei secondi di una risposta che Primo Levi dà a Luigi Silori a proposito del suo esordio come scrittore. Fanno parte di un'intervista televisiva trasmessa il 27 settembre 1963. Su queste parole ha richiamato l'attenzione giorni fa Domenico Scarpa, sulla stampa, fermandosi a valutare brevemente quel commettere.
Rivedere l'intervista e attardarsi sul passo è facile, oggi. Si può di conseguenza verificare che la sottolineatura di Scarpa è opportuna. Sul proferimento di quel commettere, Levi ha un attimo di esitazione. Come qualcuno che sta confessando una colpa, smette di guardare negli occhi chi ne ha sollecitato le parole. Abbassa lo sguardo, con un gesto trasparente di pudore, se non di vergogna.
La penna di Levi, scabra, essenziale, precisa, avrebbe certo prodotto il chiaro e immediato scrivere: "Non sapevo ancora di essere in grado di scrivere". Al posto di scrivere, parlando, gli affiora invece sulle labbra un'espressione abnorme: commettere questo atto dello scrivere; prolissa (cinque parole al posto di una), molto marcata e, al tempo stesso, come cautelosa. Che vuol dire? Un paio di preliminari osservazioni grammaticali saranno utili.
Scrivere, come si è visto, è il nocciolo di tutto e la scelta che sarebbe stata piana e non-marcata. Scrivere, nome del verbo, proietta allora anzitutto fuori di sé la sua natura nominale. Lo aiuta per questo l'articolo determinativo. Scrivere diventa così lo scrivere. Evidentemente, l'articolo non basta. Viene fuori di conseguenza un'ulteriore stampella nominale, correlata col fatto che scrivere è un agire. Con atto, quanto era implicito e parzialmente esplicitato dall'articolo diventa così ancora più esplicito. Lo scrivere è diventato a questo punto l'atto dello scrivere. L'atto è stato compiuto, nel caso specifico. Se ne sta appunto parlando: è Se questo è un uomo. È un dato oggettivo della realtà. Lo si può mostrare. Se ne possono prendere le distanze, ma lo si fa rivendicandone al tempo stesso la prossimità all'io che parla. Lo si dota così dell'adeguato aggettivo dimostrativo: questo atto dello scrivere. Resta il fatto che scrivere è in ogni caso e ancora un fare. Lo si è ingabbiato e solidificato in una rigida espressione nominale, provvista di un determinatore (come lo), di un classificatore (come atto), di un modificatore rideterminante (come questo). Che ne è, a questo punto e in un'espressione del genere, della sua natura processuale? Come lasciare che il processo emerga e che se ne possa indicare il soggetto? Soccorre allora l'appoggio di commettere, uno di quei verbi che Maurice Gross definiva appunto "supporto". Esso si presta alla costruzione di molte espressioni. Queste sono però di norma connotate in modo eticamente negativo: commettere uno sbaglio, un illecito, un crimine, un furto, uno stupro, una violenza, un assassinio. Sta qui la radice linguistica della nota di Scarpa, che vede in quel commettere un tratto della "pacata ironia" di Levi. Lo scrittore, secondo il critico, è consapevole e vuol dire non di aver scritto, ma di avere "commesso" Se questo è un uomo: un'opera che, rompendo il silenzio e le convenzioni, graffia positivamente la quieta farisaica coscienza del mondo moderno.
Apollonio concorda. Trova però che quell'espressione dica ancora qualcosa. Con la sua aria dimessa e perversa, essa è soprattutto eufemistica (si pensi all'esemplare commettere atti impuri, innescatore di infinite fantasie adolescenziali, o all'altrettanto esemplare commettere un atto insano per suicidarsi). Come molti eufemismi, commettere questo atto dello scrivere si presenta infatti come un complesso giro di parole che, in fondo, serve a nasconderne la sola che si vuole evitare di proferire bruscamente, nel caso specifico, chiudendola dentro una serie complessa di scatole grammaticali. Adoperati per non evocare, col vero nome, ciò che atterrisce o di cui si ha onta, gli eufemismi finiscono però per sottolinearne l'oscura fascinazione.
Sembra così ad Apollonio che in quel minuscolo passaggio siano emblematicamente e celatamente rappresentate l'ironica tragedia di Levi e la sua musa lacerante, la musa di un uomo condannato a scrivere e che scrisse appunto sempre come uomo e mai come scrittore. Del resto, in quell'intervista, Levi parla da uomo e non da scrittore.
Ci sono scrittori (e sono la maggioranza) che, non si sa come, non si sa perché, finiscono per essere scrittori prima di uomini. L'impressione che danno è di scrivere con e per soddisfazione del proprio sé. Ci sono poi gli uomini e accade a qualcuno d'essere condannato a scrivere. Un uomo che scrive prova anzitutto vergogna di scrivere, come si prova vergogna della propria condanna. Ne prova di più se gli accade di sospettarsi vittima di una fallace impressione, comune in un mondo in cui chi scrive lo fa da scrittore. La fallace impressione di scrivere per e di sé medesimo, quando invece, da implacabile osservatore (se non da scienziato), sta solo provando a chiarirsi, descrivendolo e oggettivandolo nella parola scritta, il mondo come esso gli s'è manifestato: un'esperienza orribile, nuda a Buna-Monowitz, agghindata altrove, e pure l'unica che si ha e che, dunque, bisogna essere capaci di trovare, se non amabile, almeno non detestabile.
Ma solo fino a un certo punto. E sta qui, suggerirebbe infine Apollonio a Domenico Scarpa, il mistero profondissimo delle parole che ha avuto l'acutezza di sottolineare. Abbassa lo sguardo Primo Levi, di fronte al suo interlocutore. Sembra una crisi della timidezza che fa dire a chi l'ha conosciuto quanto fosse delicato e sommesso il suo conversare. Forse lo fa invece (o nel contempo) perché sa che sarà per una volta sfrontato, tanto da dovere ricorrere a un eufemismo, a dire il vero, stilisticamente pesante, per esprimere il nocciolo forse più personale del suo discorso, per dire che molte volte egli ha provato a resistere alla condanna e s'è trattenuto dal commettere l'atto impudico, impuro, insano e, infine, blasfemo, dello scrivere che, infine, ha commesso. Non c'è del resto un solo libro che, lo si sa da migliaia di anni, merita d'essere stato scritto? E chi ne è l'autore?
Dice tutto questo da "impiegato" cui, confessa, piace narrare oralmente la sua picaresca avventura. Ma scrivere? E se fosse un oltracotante dissacrare? Lo dice in un discorso tenuto a casa sua, tra le mani un giocattolo del figlio e alle spalle una modesta libreria; in un discorso che oggi, col senno del poi, suona, per chi lo vuole intendere, come vaticinio terribilmente premonitore.
"Non sapevo ancora di essere in grado di commettere questo atto...". Ventiquattro anni dopo, nei medesimi luoghi, prima di fermarsi sull'impiantito, per i pochi attimi concessi a un uomo che, definitivamente, non dovrà mai più vergognarsi di scriverne, Primo Levi ha forse perfettivamente saputo di esserne stato e, al tempo stesso, di non esserne più stato capace.
19 giugno 2011
Trucioli di critica linguistica (3): "Lines è"
Il nome che un prodotto industriale porta entrando nel mercato è importante. C'è bisogno che lo si dica? Succede allora che un assorbente intimo sia battezzato come (Lines) è: un nome che più minimalista e, tuttavia, più parlante non si potrebbe. Perché?
Di assorbenti, Apollonio non è un esperto: in nessun senso. A credere ai messaggi espliciti veicolati dagli annunci, pare però che, dalla prospettiva soggettiva di chi davanti ai banchi di un supermercato fa una scelta di acquisto, principali virtù di un assorbente siano che averlo addosso deve essere (quasi) come non averlo, dal punto di vista di un'autocoscienza fisica, e, dal punto di vista di un'autocoscienza morale, che ci si senta sicure che la funzione sia assolta al meglio.
Se le cose stanno così, come tutte le situazioni in cui competono, se non confliggono, due princìpi (è il modello dell'ironia tragica), anche la situazione dell'assorbente è pronta a trasformarsi in racconto, non tragico naturalmente, per evidenti esigenze comunicative e commerciali, ma a lieto fine.
Di un assorbente si mette di conseguenza sempre in scena la trasfigurazione mistica. Esso ha da smettere d'essere un corpo estraneo aggiunto al corpo di chi lo indossa (cioè un assorbente) e ha da avvicinarsi il più possibile allo stato di un organo di tale corpo, funzionante al meglio senza dar segni di sé: è il destino cui del resto lo inviano la sua intimità e il suo stigma riparatorio e terapeutico.
Se questa rapida analisi coglie qualcosa di vero, tutti gli annunci merceologicamente comparabili raccontano allora la battaglia infinita che l'assorbente combatte per essere funzionalmente un assorbente processuale, proiettabile come participio presente, un assorbente però che, per paradosso, non è ontologicamente classificabile come un assorbente, non è cioè una cosa definita da un sostantivo. Per modernità tecnologica (lo testimonia l'annuncio), l'assorbente (Lines) è si vende come soluzione finale del dramma: "C'era una volta l'assorbente, adesso è... E poi è il più assorbente che c'è".
Di un assorbente si mette di conseguenza sempre in scena la trasfigurazione mistica. Esso ha da smettere d'essere un corpo estraneo aggiunto al corpo di chi lo indossa (cioè un assorbente) e ha da avvicinarsi il più possibile allo stato di un organo di tale corpo, funzionante al meglio senza dar segni di sé: è il destino cui del resto lo inviano la sua intimità e il suo stigma riparatorio e terapeutico.
Se questa rapida analisi coglie qualcosa di vero, tutti gli annunci merceologicamente comparabili raccontano allora la battaglia infinita che l'assorbente combatte per essere funzionalmente un assorbente processuale, proiettabile come participio presente, un assorbente però che, per paradosso, non è ontologicamente classificabile come un assorbente, non è cioè una cosa definita da un sostantivo. Per modernità tecnologica (lo testimonia l'annuncio), l'assorbente (Lines) è si vende come soluzione finale del dramma: "C'era una volta l'assorbente, adesso è... E poi è il più assorbente che c'è".
Con cosa tutto ciò sia eventualmente ancora correlato sarebbe forse corrivo dire, a questo punto, e, trattandosi di genere, uno di quei temi di cui oggi si chiacchiera a dismisura, i suoi cinque lettori ne esonereranno Apollonio. A insistere, gli sfuggirebbe senz'altro prima o poi l'espressione "gentil sesso", così poco politicamente corretta.
Lo esonereranno inoltre perché, se frequentano questo blog, sanno che egli è solo un vecchio amatore di lingua e grammatica e, se si è avventurato per contrade tanto pericolose, non è perché del genere gli cale ma perché gli preme soprattutto di quell'è. Terza persona del presente indicativo del verbo essere e nome proprio commerciale di un prodotto.
Molta della fortuna del prodotto è infatti affidata alla trasparenza di quell'espressione. Essa attraversa la lingua senza avere rispetto delle tradizionali partizioni tra nomi e verbi, poi tra nomi propri e comuni, infine tra parole lessicali e parole grammaticali, parole-contenuto e parole-funzione, le prime dense di significato, le seconde prive, le prime piene, le seconde vuote (o svuotate, come si dice, per grammaticalizzazione). E sono binari sui quali continua a filare la linguistica, non solo l'eterna e bonariamente normativa, lentamente, ma anche, oggi in apparenza velocissima, la scientificamente supponente, quella che di "rivoluzioni" ne fa almeno un paio ogni lustro.
Lo esonereranno inoltre perché, se frequentano questo blog, sanno che egli è solo un vecchio amatore di lingua e grammatica e, se si è avventurato per contrade tanto pericolose, non è perché del genere gli cale ma perché gli preme soprattutto di quell'è. Terza persona del presente indicativo del verbo essere e nome proprio commerciale di un prodotto.
Molta della fortuna del prodotto è infatti affidata alla trasparenza di quell'espressione. Essa attraversa la lingua senza avere rispetto delle tradizionali partizioni tra nomi e verbi, poi tra nomi propri e comuni, infine tra parole lessicali e parole grammaticali, parole-contenuto e parole-funzione, le prime dense di significato, le seconde prive, le prime piene, le seconde vuote (o svuotate, come si dice, per grammaticalizzazione). E sono binari sui quali continua a filare la linguistica, non solo l'eterna e bonariamente normativa, lentamente, ma anche, oggi in apparenza velocissima, la scientificamente supponente, quella che di "rivoluzioni" ne fa almeno un paio ogni lustro.
Ecco appunto apparire qualcosa che pretende di stare sull'ambiguo crinale che divide essere e non-essere e che si trova come designazione e nome proprio una forma del verbo essere: non l'infinito, il nome del verbo, ma una forma coniugata e al tempo stesso massimamente non-temporale e non-personale.
Sotto lo statuto anch'esso ambiguo di denominazione e di parte di una proposizione: Lines è sta infatti sullo sfondo contrastivo naturale di è Lines. Un verbo tutto essenza e niente funzione? Un nome tutto funzione e niente essenza? Un verbo che come nome dice appunto su quale crinale di decidibile ambiguità sta l'oggetto che designa, assolvendo egregiamente e con plasticità alla sua funzione: "torna al suo posto e non si deforma".
Sotto lo statuto anch'esso ambiguo di denominazione e di parte di una proposizione: Lines è sta infatti sullo sfondo contrastivo naturale di è Lines. Un verbo tutto essenza e niente funzione? Un nome tutto funzione e niente essenza? Un verbo che come nome dice appunto su quale crinale di decidibile ambiguità sta l'oggetto che designa, assolvendo egregiamente e con plasticità alla sua funzione: "torna al suo posto e non si deforma".
All'analisi razionale delle lingue che ne fanno fenomeno, l'essere (poi divenuto dei filosofi), se è come l'essere italiano, è infatti proprio un plastico nulla. Ovunque esso ricorre, una forma ausiliaria che dà ricetto a proprietà predicative che non sono le proprie. In effetti, di proprietà di esistenza, in essere, non ce n'è alcuna e quell'è è una sorta di assorbente di valori impliciti ed altrui: nomen omen, l'apoteosi del fare denominativo, al tempo stesso, mistico e razionale, lessicale, anzi enciclopedico e sintattico. Ecco come, attraverso un nome (ma, appunto, è un nome?), nasce una cosa. Pardon! Una non-cosa.
Per chi non lo conoscesse, questo è l'annuncio.
Per chi non lo conoscesse, questo è l'annuncio.
16 giugno 2011
Variare, mutare
Capitava anni fa (oggi un po' meno, i tempi sono mutati) di leggere scritti di studiosi entusiasti dei propri metodi che annunciavano, impavidamente, di avere visto mutare la lingua, nel corso delle loro esplorazioni, quando invece, come capita a chiunque vi presti un po' di attenzione, l'avevano soltanto vista variare. A questi esploratori superbi, il Marco Polo delle Città invisibili avrebbe certo replicato che all'uomo è al massimo dato di cogliere le lingue mutate. La differenza c'è ed è enorme.
Se Marco Polo ha torto, il linguista che si occupa di diacronia è, in prospettiva, una figura faustianamente inquietante e soffia uno spirito diabolico nella linguistica diacronica.
Se, come Apollonio inclina a pensare, Marco Polo ha ragione, il linguista che osserva la lingua attraverso il tempo (e Apollonio medesimo quando sovente lo fa) è un buonuomo che ha le simpatiche fattezze di quell'ashkenazita della mitica Chelmo al quale fu raccontato (secondo la storiella raccolta da Ferruccio Fölkel) che i corvi campano più di duecento anni e che, curioso, ingenuo e un po' sciocco, come forse deve essere ogni uomo di scienza, ne catturò uno per vedere se la notizia fosse vera.
Se, come Apollonio inclina a pensare, Marco Polo ha ragione, il linguista che osserva la lingua attraverso il tempo (e Apollonio medesimo quando sovente lo fa) è un buonuomo che ha le simpatiche fattezze di quell'ashkenazita della mitica Chelmo al quale fu raccontato (secondo la storiella raccolta da Ferruccio Fölkel) che i corvi campano più di duecento anni e che, curioso, ingenuo e un po' sciocco, come forse deve essere ogni uomo di scienza, ne catturò uno per vedere se la notizia fosse vera.
12 giugno 2011
Lingua loro (20): Ossimoro
Ossimoro, scrivono Nocentini e Parenti nel loro Etimologico (Milano, 2010), è "un prestito moderno dal greco antico" ed è un nome fatto a partire da un aggettivo "comp[osto] dei due agg[ettivi] di sign[ificato] opposto oxýs nel sign[ificato] di 'acuto, penetrante' e mōrós 'stolto, sprovveduto', assunto come campione di una figura retorica formata da due significati contrastanti". Ne è celebre esempio l'apostrofe che Alfred Hitchcock pare rivolgesse a una delle sue attrici giustamente preferite: hot ice Grace.
"Mercato e ossimori" si legge oggi nell'occhiello dell'articolo di spalla, sulla prima pagina di un quotidiano economico. E Apollonio pensa che nelle piazze finanziarie, per la gioia di sfaccendati poeti e perversi amatori della lingua, si sia cominciato a fare negotium di un otium e si sia così cominciato, per lucida follia, a quotare, a vendere e a comprare concordia discors, eloquente silenzio, sprezzante simpatia e simili differenze.
Invece, legge nel testo: "Le richieste della Commissione europea hanno appena imposto all'Italia, come priorità, oltre al taglio del debito pubblico, il ritorno alla crescita economica. Ma tagli al debito e stimoli per la crescita, insieme, appaiono in verità un ossimoro, nella cui tenaglia si dibatte non solo l'Italia, ma molti paesi dell'Ocse". Insomma, un passo che avrebbe un dì potuto suonare pacificamente come "...tagli al debito e stimoli per la crescita... appaiono in verità misure contraddittorie [o in contraddizione, contrastanti, in conflitto]". E qui la parafrasi di Apollonio si ferma, perché la figura che segue nel passo, la "tenaglia" dell'ossimoro in cui si dibatterebbe l'Italia, l'ha gettato nel buio sconforto di un'illuminante ilarità e, di conseguenza, l'ha fatto scoppiare, come sempre, in una risata dolceamara, sommessamente omerica.
Per carità, come sempre nella lingua, niente di grave o di cui menare scandalo: ossimoro pare stia diventando una metafora, una di quelle che, alla prosa di chi se ne serve, dà un tono di raffinatezza. Si sa, però, come le metafore siano delicate e pronte a usurarsi: il caso di tenaglia è illuminante. E si sa (e qui se ne è detto qualche mese fa) cosa sia accaduto, e da tempo, proprio a metafora. C'è da temere allora che, senza che nulla lo lasciasse prevedere, sulla via della salvifica perdizione e dell'onorevole degrado, il povero ossimoro sia già stato indirizzato a farle compagnia.
Ossimoro corre insomma il rischio di smettere d'essere un ossimoro e anche nel suo caso, come dappertutto e a dispetto dell'etimologia, pare sia prevedibile che l'acutezza arretri e, inarrestabile, prevalga il cretino.
10 giugno 2011
Ma quando la luna non si vede...
è saggio pensare che non ci sia?
Non tutte le notti è possibile contemplare la luna: i giovani innamorati lo sanno. L'ipotesi che vada via dal cielo, e finisca, poniamo, in un pozzo, ha degnissimo e suggestivo valore euristico. Lo esplorò, per es., il poeta Lucio Piccolo di Calanovella e (non lo si afferma per celia) nessuno sa se un giorno si scoprirà che aveva ragione.
Nell'attesa ci si accontenta di ipotesi meno concettualmente impegnative e si pensa più crudamente che, in certe notti, la luna non si vede perché mutano le condizioni che la rendono osservabile a occhio nudo. Il suo porsi in relazione con il sole e con la terra fa sì che essa appaia o sparisca, senza che sia necessario pensare che sia andata via o che si sia dissolta, per poi ricomporsi con la sua nuova fase.
Oggi pensare che le cose stanno così è facile. Prove sperimentali che, pur nella loro semplicità, sono più complesse e affidabili della banale osservazione degli innamorati sono lì a dimostrarlo.
A dire il vero, però, se lo si trova ragionevole è per una consapevolezza epistemologica che precede e fonda l'esigenza euristica d'ogni prova e l'approntamento degli strumenti tecnici e metodologici di cui si sono dotate le moderne scienze sperimentali.
Si tratta, in fondo, di un semplice criterio di buon senso. La quieta coscienza del ruolo decisivo che le condizioni di osservazione hanno nella determinazione dei fenomeni. Questi (non lo si dovrebbe mai dimenticare) sono etimologicamente proprio le cose che appaiono, che si manifestano, che si lasciano vedere. E che, esattamente come appaiono, possono - la luna l'insegna - scomparire, finendo nell'oscuro pozzo - Lucio Piccolo aveva ragione - in cui giacciono le interminate domande umane prive di una risposta.
"Ingrata patria..."
Il topos di una patria matrigna, che non celebra il figlio meritevole e anzi lo scaccia e lo perseguita rimonta all'antichità classica ed è proverbialmente riflesso (come si sa) nei Vangeli: "Nemo propheta...". Da lì è percolato nella cultura italiana, ricevendone in alcuni casi un lustro spinto fino all'antonomasia. L'opera e la vita di Dante ne sono paradigma, quelle di Ugo Foscolo (per citare un caso più prossimo) parziale riflesso.
Del topos si è però oggi impadronita la comunicazione di massa e a un brufoloso ragazzetto, poniamo, della nobile e antica città di Apollosa, bastano una borsa Erasmus e un paio di mesi all'Università di Nizza per prendere subito gli accenti accorati dell'esule i cui meriti l'ingrata patria spregia, accenti amplificati da chi, piazzatogli un microfono davanti la bocca o un taccuino sotto gli occhi, ne raccoglie l'importante testimonianza. E nulla si dice di quando la testimonianza è di "una geniale ricercatrice nell'avanzatissimo laboratorio" o di "un manager giovane e creativo dell'importante multinazionale". Ma che ci si vuol fare? L'Italia produce cervelli in quantità e, ragionevolmente, più di quanti non ne necessiti un paese di furbi. Di conseguenza, da sempre, li esporta. In Italia, c'è sempre stata penuria non di materia grigia ma di materie prime e non c'è condominio che non alberghi qualche Galileo.
Del resto, va detto, oggi non mancano in proposito i maestri. Non mancano gli augusti esempi di gente importante che, amareggiata, si dice delusa della patria e del suo andazzo senza nemmeno essere mai stata costretta a espatriare. Anzi, talvolta percorrendo in patria spettacolari cursus honorum, coprendovi alte cariche e ruoli di guide culturali e delle anime.
Così che, quando si ascoltano certe sortite, verrebbe fatto di chiedere: "Ma, mi scusi, stando in sella, dalla sua privilegiata specola non s'era accorto di nulla? E se, come dice e siam d'accordo, l'Italia è ridotta in uno stato pietoso, considerato lo spropositato numero di luminose presidenze da lei coperte, non sarà forse anche per sua responsabilità? Insomma, quando maturavano i tempi del disastro, quando ci si preparava a lasciarci in mutande, lei dov'era?".
Il mood, venato d'indignazione, che Apollonio chiamerebbe appunto "Ingrata patria...", è così diventato fenomeno di massa. Chi non pretende che le sue qualità siano socialmente sottostimate, che il suo benemerito lavoro per il bene comune sia (stato) gettato al vento e che la colpa sia "degli altri" e del degrado dei tempi? Non c'è presuntuoso docente che non l'abbia pensato e non lo pensi. Sono atteggiamenti umani tanto ordinari quanto meschini, che un po' di modestia, un po' d'ironia basterebbero a venare di un sorriso. E siccome la gente istruita è il target d'elezione dell'industria culturale, questa ha subito approfittato della frustrazione dilagante e del mood "Ingrata patria..." per fare cassetta. C'è sentimento poco commendevole di cui la modernità putrefatta non ne fa?
Balzano così ai primi posti delle classifiche delle vendite libri esemplari, sdegnosi e corrucciati, che ai medesimi sentimenti invitano i lettori. Portano titoli che dicono dell'indignazione dei loro autori e suonano come severe reprimende. Qui di seguito, come antidoto al veleno delle sue proprie frustrazioni e come sorridente omaggio alla sua patria, che mai ha pensato gli sia stata ingrata, fosse anche solo per il dono di una lingua bella e non comune, Apollonio prova a riportarli ai possibili valori di una quieta quotidianità discorsiva.
Non è il paese che sognavo: "...ci scusi, siamo mortificati. Ce lo restituisca pure. Si proverà a far meglio al suo prossimo risveglio".
Togliamo il disturbo: "...ma no, cosa dite? Non sia mai. Delle personcine tanto gradevoli e garbate! Anche se, sì, in effetti, veramente si sarebbe già fatto un po' tardi".
E, celebrato con l'occasione di una fausta ricorrenza con pompe ufficiali, anche un film.
Noi credevamo: "...e siccome si è trovato che vi sbagliavate, sarebbe forse il caso, per una volta, di chiedere scusa e di uscire dalla comune".
Del resto, va detto, oggi non mancano in proposito i maestri. Non mancano gli augusti esempi di gente importante che, amareggiata, si dice delusa della patria e del suo andazzo senza nemmeno essere mai stata costretta a espatriare. Anzi, talvolta percorrendo in patria spettacolari cursus honorum, coprendovi alte cariche e ruoli di guide culturali e delle anime.
Così che, quando si ascoltano certe sortite, verrebbe fatto di chiedere: "Ma, mi scusi, stando in sella, dalla sua privilegiata specola non s'era accorto di nulla? E se, come dice e siam d'accordo, l'Italia è ridotta in uno stato pietoso, considerato lo spropositato numero di luminose presidenze da lei coperte, non sarà forse anche per sua responsabilità? Insomma, quando maturavano i tempi del disastro, quando ci si preparava a lasciarci in mutande, lei dov'era?".
Il mood, venato d'indignazione, che Apollonio chiamerebbe appunto "Ingrata patria...", è così diventato fenomeno di massa. Chi non pretende che le sue qualità siano socialmente sottostimate, che il suo benemerito lavoro per il bene comune sia (stato) gettato al vento e che la colpa sia "degli altri" e del degrado dei tempi? Non c'è presuntuoso docente che non l'abbia pensato e non lo pensi. Sono atteggiamenti umani tanto ordinari quanto meschini, che un po' di modestia, un po' d'ironia basterebbero a venare di un sorriso. E siccome la gente istruita è il target d'elezione dell'industria culturale, questa ha subito approfittato della frustrazione dilagante e del mood "Ingrata patria..." per fare cassetta. C'è sentimento poco commendevole di cui la modernità putrefatta non ne fa?
Balzano così ai primi posti delle classifiche delle vendite libri esemplari, sdegnosi e corrucciati, che ai medesimi sentimenti invitano i lettori. Portano titoli che dicono dell'indignazione dei loro autori e suonano come severe reprimende. Qui di seguito, come antidoto al veleno delle sue proprie frustrazioni e come sorridente omaggio alla sua patria, che mai ha pensato gli sia stata ingrata, fosse anche solo per il dono di una lingua bella e non comune, Apollonio prova a riportarli ai possibili valori di una quieta quotidianità discorsiva.
Non è il paese che sognavo: "...ci scusi, siamo mortificati. Ce lo restituisca pure. Si proverà a far meglio al suo prossimo risveglio".
Togliamo il disturbo: "...ma no, cosa dite? Non sia mai. Delle personcine tanto gradevoli e garbate! Anche se, sì, in effetti, veramente si sarebbe già fatto un po' tardi".
E, celebrato con l'occasione di una fausta ricorrenza con pompe ufficiali, anche un film.
Noi credevamo: "...e siccome si è trovato che vi sbagliavate, sarebbe forse il caso, per una volta, di chiedere scusa e di uscire dalla comune".
8 giugno 2011
Monitorare le criticità territoriali
Questa superba infilata di vibrazioni della punta della lingua che, mentre il velo pendulo si alza e si abbassa, vellica più volte e sensualmente gli alveoli di chi la proferisce e per correlate esplosioni di alcune plosive dentali e di un'affricata palatale, ne fa tremare, ove presente, il cervello nel momento stesso in cui un soffio leggero gli accarezza le papille laterali e le corde vocali si serrano ripetutamente per poi rilassarsi (puf!) è attestata. Apollonio lo giura. Del resto, per aver prova che non mente, basta Google.
Per amplificare il godimento proprio e, in virtù dei celebri neuroni-specchio, del o della partner, se ne immagina adeguatissimo il ripetuto proferimento ad alta voce durante l'amplesso: "Oh sì... monitorare le criticità territoriali, monitorare le criticità territoriali, monitorare le criticità territor.... ahhhh".
Ma, perdonino Apollonio i suoi cinque lettori per la sua inadeguatezza alla lingua del tempo, dietro il suo fulgore formale e la sua dimostrabile funzionalità erotica, "monitorare le criticità territoriali" che vuol dire? E possono disporgliene benevoli una parafrasi?
La linea editoriale di questo blog, severa e, lo si concede volentieri, anche un po' bacchettona (ne ha avuto prova qualche gentile ma forse un po' intemperante commentatore), impedisce che questo post disponga, come gli altri, di un'immagine adeguata: ciascuno se la figuri secondo i suoi gusti e la sua fantasia.
Per amplificare il godimento proprio e, in virtù dei celebri neuroni-specchio, del o della partner, se ne immagina adeguatissimo il ripetuto proferimento ad alta voce durante l'amplesso: "Oh sì... monitorare le criticità territoriali, monitorare le criticità territoriali, monitorare le criticità territor.... ahhhh".
Ma, perdonino Apollonio i suoi cinque lettori per la sua inadeguatezza alla lingua del tempo, dietro il suo fulgore formale e la sua dimostrabile funzionalità erotica, "monitorare le criticità territoriali" che vuol dire? E possono disporgliene benevoli una parafrasi?
La linea editoriale di questo blog, severa e, lo si concede volentieri, anche un po' bacchettona (ne ha avuto prova qualche gentile ma forse un po' intemperante commentatore), impedisce che questo post disponga, come gli altri, di un'immagine adeguata: ciascuno se la figuri secondo i suoi gusti e la sua fantasia.
La libertà di subordinare, la schiavitù di coordinare
Subordinazione e coordinazione: modelli generali per la composizione dei testi. Nei testi esse si mescolano variamente. La prevalenza dell'una o dell'altra fa però differenze, che chi legge o ascolta non tarda a percepire, non necessariamente in modo consapevole.
La subordinazione ricorre in testi in cui prevale l'aspetto argomentativo. Sono testi spesso centrati sulla terza persona, che Benveniste giustamente chiamava "non-persona". La composizione delle proposizioni è affidata alla trasparenza di rapporti interpretabili e interpretati: causali, temporali, finali e così via (secondo la terminologia semantica tradizionalmente in uso). La si trova di conseguenza preferita in certi tipi di testi scritti o in un parlato fortemente organizzato.
La coordinazione ricorre in testi, scritti o parlati, in cui prevalgono aspetti emotivi o conativi. Sono testi sovente centrati sull'"io" o sul "tu", che non badano a rendere linguisticamente trasparente la ratio compositiva delle proposizioni. Si affidano quasi per intero alla semplice e irrinunciabile caratterizzazione dei rapporti imposta dalla linearità dell'espressione, dal fatto che, senza che ci si possa fare nulla, nell'espressione linguistica (proprio come nella vita) qualcosa vien prima e qualcosa dopo. La coordinazione dà a tali testi un'apparenza di maggiore sveltezza. Alla sua più semplice organizzazione di superficie non di rado corrisponde però un'ambiguità profonda.
Un facile esempio. In Esce Pio e io entro le due brevi proposizioni sono coordinate e solo l'ordine ne struttura il rapporto non solo formale ma anche interpretativo (come sempre nella lingua). Così com'è ordinata e messa in relazione con costrutti paralleli con subordinazione, la loro composizione per coordinazione potrebbe valere almeno come Quando esce Pio, io entro; come Poiché esce Pio, io entro; come Se esce Pio, io entro; o ancora come Pio esce affinché io entri. In tutti questi casi, ci sono espliciti operatori compositivi (rappresentati dalle cosiddette congiunzioni subordinative) che rendono la costruzione meglio interpretabile. Il prezzo che si paga alla chiarezza è la complessità della subordinazione sintattica.
Cosa dice allora questa banale osservazione a chi voglia intenderla? Dice una cosa inattesa e, all'apparenza, paradossale. La subordinazione è un modo per ribellarsi ordinatamente e, certo, come si può nei limiti umani alla più pesante dittatura cui obbedisce l'espressione: la dittatura del tempo. La subordinazione può aprire un piccolo spiraglio di libertà e rendere meno costrittivo quell'ordine che, invece, la coordinazione accetta come suo rigido parametro: Io entro, perché esce Pio; Io entro, se esce Pio; Io entro, quando esce Pio.
Lo si è detto: l'apparenza è di un paradosso. La gerarchia che la subordinazione domanda rende l'espressione più creativa e la subordinazione è, di conseguenza, più libera perché più responsabile e disciplinata della coordinazione.
Non è forse un caso allora che epoche o figure di pensatori e di scrittori che hanno prestato molta attenzione alla libertà (in ogni senso immaginabile) siano stati guidati dalla loro espressione verso forme sintattiche altamente gerarchiche e ricche di subordinazioni.
Come non deve essere un caso che un'epoca come la moderna, in cui (malgrado le apparenze) la libertà è rimasta a cuore a pochi sempre più sparuti, le sue menzioni sono state sovente menzogne e i suoi valori hanno avuto margini sempre più angusti, un'epoca come la moderna, si diceva, abbia visto un progressivo (ohibò) e sempre più largo imporsi testuale della coordinazione. Fino ai limiti della comunicazione d'oggi che, seguendo modelli totalitari che si fa mostra di spregiare, ma solo perché li si è frattanto perfezionati, mira, da un lato, a innalzare a dismisura il feticcio di qualche niente spacciato per "io" e, dall'altro e correlativamente, a ottenere obbedienti comportamenti irriflessi da miriadi di instupiditi "tu".
La coordinazione ricorre in testi, scritti o parlati, in cui prevalgono aspetti emotivi o conativi. Sono testi sovente centrati sull'"io" o sul "tu", che non badano a rendere linguisticamente trasparente la ratio compositiva delle proposizioni. Si affidano quasi per intero alla semplice e irrinunciabile caratterizzazione dei rapporti imposta dalla linearità dell'espressione, dal fatto che, senza che ci si possa fare nulla, nell'espressione linguistica (proprio come nella vita) qualcosa vien prima e qualcosa dopo. La coordinazione dà a tali testi un'apparenza di maggiore sveltezza. Alla sua più semplice organizzazione di superficie non di rado corrisponde però un'ambiguità profonda.
Un facile esempio. In Esce Pio e io entro le due brevi proposizioni sono coordinate e solo l'ordine ne struttura il rapporto non solo formale ma anche interpretativo (come sempre nella lingua). Così com'è ordinata e messa in relazione con costrutti paralleli con subordinazione, la loro composizione per coordinazione potrebbe valere almeno come Quando esce Pio, io entro; come Poiché esce Pio, io entro; come Se esce Pio, io entro; o ancora come Pio esce affinché io entri. In tutti questi casi, ci sono espliciti operatori compositivi (rappresentati dalle cosiddette congiunzioni subordinative) che rendono la costruzione meglio interpretabile. Il prezzo che si paga alla chiarezza è la complessità della subordinazione sintattica.
Cosa dice allora questa banale osservazione a chi voglia intenderla? Dice una cosa inattesa e, all'apparenza, paradossale. La subordinazione è un modo per ribellarsi ordinatamente e, certo, come si può nei limiti umani alla più pesante dittatura cui obbedisce l'espressione: la dittatura del tempo. La subordinazione può aprire un piccolo spiraglio di libertà e rendere meno costrittivo quell'ordine che, invece, la coordinazione accetta come suo rigido parametro: Io entro, perché esce Pio; Io entro, se esce Pio; Io entro, quando esce Pio.
Lo si è detto: l'apparenza è di un paradosso. La gerarchia che la subordinazione domanda rende l'espressione più creativa e la subordinazione è, di conseguenza, più libera perché più responsabile e disciplinata della coordinazione.
Non è forse un caso allora che epoche o figure di pensatori e di scrittori che hanno prestato molta attenzione alla libertà (in ogni senso immaginabile) siano stati guidati dalla loro espressione verso forme sintattiche altamente gerarchiche e ricche di subordinazioni.
Come non deve essere un caso che un'epoca come la moderna, in cui (malgrado le apparenze) la libertà è rimasta a cuore a pochi sempre più sparuti, le sue menzioni sono state sovente menzogne e i suoi valori hanno avuto margini sempre più angusti, un'epoca come la moderna, si diceva, abbia visto un progressivo (ohibò) e sempre più largo imporsi testuale della coordinazione. Fino ai limiti della comunicazione d'oggi che, seguendo modelli totalitari che si fa mostra di spregiare, ma solo perché li si è frattanto perfezionati, mira, da un lato, a innalzare a dismisura il feticcio di qualche niente spacciato per "io" e, dall'altro e correlativamente, a ottenere obbedienti comportamenti irriflessi da miriadi di instupiditi "tu".
6 giugno 2011
3 giugno 2011
Habemus papam (1)
Esordendo con Io sono un autarchico e facendogli seguire il proverbiale Ecce Bombo, or sono quasi quaranta anni, Nanni Moretti, nel personaggio di Michele Apicella, si dichiarò immediatamente come autore di un'opera autobiografica. Si dichiarò allo stesso tempo come anamorfosi, per i nati nel Dopoguerra, della grande impronta autobiografista che, per i nati nel Dopoguerra precedente, Federico Fellini stava lasciando sul cinema italiano della seconda metà del Novecento.
Il latino è la lingua di Roma, della Chiesa cattolica e (trattandosi di Moretti, come si vedrà) anche dell'italianissimo liceo classico. Dopo il multifattoriale ecce, sempre con valenza religiosa, il latino torna nel titolo di un suo film con Habemus papam, che dell'autobiografia per parole e immagini di Moretti è ancora un nuovo capitolo. Come attore, Moretti vi recita con la sua solita dizione perentoria. Tale dizione pare discendere direttamente dai chiari caratteri delle epigrafi imperiali latine che spesseggiano nella sua città. Nella dizione di Moretti attore e nel suo nitore epigrafico certo risuona (o occhieggia) la figura professionale del padre, professore universitario di epigrafia. Analiticamente, il padre è di conseguenza presente nell'intera carriera dell'attore Moretti. Non è così in quella di Moretti autore e regista, anche nel caso di questo suo ultimo film.
In Habemus papam, il papa (mancato), interpretato da Michel Piccoli, e l'analista (mancato anch'esso, a ben vedere), interpretato dal medesimo Moretti, sono le due facce del medesimo personaggio autobiografico: è facile mostrarlo. La loro coincidenza nei luoghi è momentanea e si verifica in una scena, con le due poltrone contrapposte, in cui è come se papa e analista si guardassero allo specchio. Il libero vagabondare dell'uno coincide poi temporalmente con la costrizione in Vaticano dell'altro: ed è un paradosso rivelatore. Il papa finisce infatti nella famiglia dell'analista e si integra nel contesto teatrale di una compagnia di attori, in cui anche morfologicamente vale da rappresentazione di un'ironica autocoscienza registica, applicata (se Apollonio non si sbaglia: è in viaggio e certi controlli non gli sono agevoli) al Gabbiano. L'analista si trova nel contempo a fare ironicamente il papa in Vaticano. E come papa con la sua chiesa, organizza un torneo di volley. La decisione pre-finale dei cardinali di riportare a casa il papa fuggito coincide diegeticamente con il dissolversi della figura dell'analista nella narrazione: il conclave smette di prestargli attenzione e, di colpo, come era apparso, l'analista scompare.
Per effetto dell'ironia (si badi bene, non dell'autoironia: dell'ironia) che vi è inderogabilmente iscritta, il megalomane narcisismo di Nanni Moretti è, come sempre, l'aspetto più delizioso dell'ossimoro che ne costituisce la cifra stilistica: dopo l'Homo della gioventù, con la moderazione della maturità, il Papa. Tale cifra ne fa autore amabilmente odioso o, se si vuole, odiosamente amabile. Attraverso la lente di un narcisismo ironicamente megalomane, Moretti continua a raccontare il suo esperire la vita. Di cosa, nella vita di Moretti, racconta allora Habemus papam? Semplice: della sua esperienza come animatore e leader del movimento di protesta dei cosiddetti "girotondi".
All'epoca, forse Moretti e certo più d'uno tra i suoi importanti sodali (influente come un cardinale) devono aver prospettato a Moretti l'idea di prendere sul serio la testa di quel movimento, di farsene papa. In altre parole, di istituzionalizzare l'esito bizzarro e momentaneo della sua vanità e del rombo che tale vanità aveva fatto sentire sui media e sulla comunicazione sociale.
Com'è noto, dal diventare guida di quel movimento (e forse dal movimento medesimo) Moretti si è rigorosamente ritratto: vanitoso e megalomane, sì, ma certo tutt'altro che scemo. Si ritrae dall'assumere la carica a cui sarebbe stato chiamato da Dio (ohibò!) il papa del suo film: "Non sono io la guida di cui voi avete bisogno", dice alla folla.
Habemus papam racconta allora come mai e spiega il perché di quella scelta. Dice che, per accettare certi pesi, bisogna anzitutto esser modesti. E, come si è detto, Moretti non è modesto. Perché lui (e lo sa: gli è stato detto e non da Dio) è il più bravo di tutti. E, in fondo, il migliore spregia la folla osannante che nutre la sua vanità. E se ne ritrae. La spregia però amabilmente, per ossimoro. Come nella rinuncia e nel ritrarsi c'è l'ossimoro che prova il suo essere il migliore.
Della forma che l'eterno ossimoro italiano ha preso nel ceto borghese della Roma tardonovecentesca, Moretti è così un'autentica figura emblematica. Ed è una delle ragioni non secondarie per le quali i Francesi lo amano tanto. Li conferma della giustezza di loro secolari (pre)giudizi: nel caso specifico, forse, il celato giganteggiare della figura materna nella storia e nella cultura di una nazione apparentemente maschilista.
La signora Agata Apicella nei Moretti, professoressa di lettere nei licei classici, deve avere nutrito con abbondanza l'ego del piccolo Nanni, se ancora oggi esso inclina alla bulimia, e al bimbo, meglio, al Bombo non deve avere mai fatto soffrire "un deficit di accudimento".
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