Imporre a una gioia di implodere non somiglia a guastarla con un esercizio spirituale di ipocrisia?
31 dicembre 2015
30 dicembre 2015
Come cambiano le lingue (15): "Criticità", dal biasimo alla consacrazione
Giusto dieci anni sono serviti a criticità per passare dall'ironico biasimo ("esecranda parolina") che gli riservava un acuto osservatore dei costumi espressivi nazionali, in una rubrica giornalistica (era il gennaio 2006), alla consacrazione che ne decreta in questi giorni il pulpito di una delle più prestigiose istituzioni culturali nazionali.
Succede peraltro in una pagina dedicata a faccende di didattica grammaticale: "In questo Speciale, numerosi linguisti [...] affrontano di petto la tradizione grammaticale scolastica e ne segnalano limiti e criticità". Insomma, un autentico trionfo, per criticità che, parola di professori, è parola da professori (il genere, se lo accomodi ciascuno o ciascuna come gli o le aggrada).
Con ilare stupore, ora è quasi un lustro, Apollonio aveva d'altra parte sentito criticità spesseggiare proprio sulle labbra di gente professionalmente prossima a coloro che ne sanciscono l'attuale successo. Hanno tempo da perdere i suoi due lettori? Trovano qui quel vecchio frustolo.
Morale: quanto alle porte degli Inferi umani (dei trascendenti, difficile dire alcunché), non praevalebunt è affermazione velleitaria, se socialmente intesa: esse prevalgono infallibilmente. E, d'altra parte, unicuique suum: criticità è di chi, proferendola, se ne fa rappresentare.
Al punto in cui si è, c'è allora spazio solo per le testimonianze. E, con il sorriso che meritano simili futilità ma a futura memoria, l'irriducibile Apollonio lo ribadisce. Per lui, che non è un collaborazionista, criticità fu e resta "lingua loro".
28 dicembre 2015
Sommessi commenti sul Moderno (21): Ancora sull'università
"Università e capitalismo avanzato sono fondamentalmente incompatibili": è la conclusione di un intervento giornalistico di Terry Eagleton, dal titolo The death of universities che, stagionato di un lustro, cade per caso in questi giorni festivi sotto gli occhi di Apollonio.
La radicale riduzione delle risorse, osserva l'importante intellettuale inglese, comporta un inarrestabile declino degli studi umanistici nel contesto universitario odierno e, a suo parere, senza studi umanistici non c'è università. Quella che è rimasta "has become a servant of the status quo", recita del resto il catenaccio dell'articolo, ragionevolmente redazionale.
Simili accenti parlano al vecchio cuore di Apollonio. Non è più giovane di quello di Apollonio, del resto, il cuore di Eagleton: ciò che egli scriveva cinque anni fa - con l'aria di prodursi in un'estrema testimonianza - lo dice anche più chiaramente della sua biografia.
Col cuore, bisogna però che ci si sforzi di fare funzionare anche la testa, almeno un po', e che ci si chieda allora a mente fredda se un'analisi del genere indirizzi adeguatamente a capire gli esiti odierni della vicenda secolare dell'università. Perché, è vero, qualcosa è successo ma da tempo. Il decesso non è di questi ultimi anni né se ne può fare carico a una temperie che, ben che vada, è bottegaia e non è certo capace di gesti tanto impegnativi, come sarebbe un assassinio. Si accontenta, al massimo, di maramaldeggiare e di infierire sopra un cadavere. Per chi non la conoscesse già, qui una recente sortita in proposito di Apollonio.
Certo, quando ciò che Eagleaton definisce capitalismo avanzato non era ancora l'universale involucro socio-economico dentro al quale il Moderno procede adesso rapido verso la sua completa putrefazione, l'università (o il suo fantasma) sembrava vivere. E vivere anche qualche fasto. Con essa, persino gli studi umanistici.
Ci si pensi un momento, però. Prima di questa fase, modelli socio-economici concorrenti avevano retto per tutto il cosiddetto secolo breve a quella competizione verso il peggio in cui il capitalismo è appunto risultato selettivamente vincente, perché evidentemente il più adeguato. Sotto quei modelli, verso quali destini sembrava già avviata l'università? Verso destini diversi da quelli che si sono poi realizzati? Ad Apollonio non pare.
L'attentato alla libertà dell'università e alla libertà dei suoi peraltro modesti chierici, anzi, vi aveva già raggiunto livelli piuttosto alti. E se esso non si metteva in atto, come si fa oggi rigorosamente e con gran successo, in nome delle regole dell'economia di mercato, divenute sacre ovunque e tenute per massimamente morali, lo si faceva invocando altri princìpi, sempre sacri, ovviamente, e orientati al bene di sostanze trascendenti.
Lo testimonia esemplarmente un caso che in questi ultimi anni sta ancora facendo tanto rumore, ma per ragioni diverse: la vicenda di Martin Heidegger. Prima che filosofo, Heidegger fu appunto e specificamente professore d'università. Di quella nazione, la tedesca, che vantava nel campo indiscussa qualità e grande tradizione, avendo albergato il nocciolo generatore dell'università del Moderno.
Nel pensiero e nel modo di porsi di Heidegger, comunque li si inquadri, il cedimento dei valori dell'autonomia accademica a valori eteronomi, cedimento opportunamente ideologizzato, è lampante. Lo diventa ancora di più se si compara la sua figura, proprio nella prospettiva squisitamente accademica, con quella di Edmund Husserl, di cui come cattedratico Heidegger fu appunto il diretto successore. Erano proprio gli anni in cui, come istituzione della società liberale moderna dalla vita brevissima e accidentata, l'università periva.
E sarebbe difficile, in proposito, dire non si tratti di decesso decretato anche nell'orto umanistico, la cui presenza, dell'università, non è mai stata, per se medesima, garanzia di salvamento, malgrado la riferita contraria opinione di Eagleton.
Gente disposta alla servitù (anche a una servitù mascherata da potere, come poi ha continuato a essere per qualche decennio fino alle attuali miserie), se ne è sempre trovata e se ne trova ragionevolmente tra filologi e filosofi quanta se ne trova tra fisici e biologi. Né bisogna lasciarsi ingannare in proposito dal fatto che i primi riescono eventualmente a raccontarla (e a raccontarsela) meglio dei secondi.
Insomma, ad Apollonio né le specificità disciplinari né la prossimità temporale paiono tratti distintivi di una vicenda, quella dell'università, marcata da contraddizioni che solo la prima maturità del Moderno, piena di speranze che se ne sono andate ormai da più di due secoli, era stata in grado se non di appianare, almeno di fare risuonare armonicamente. Così appunto nelle pagine (a leggerle oggi, struggenti) di Wilhelm von Humboldt, l'ideatore tedesco dell'università, di un istituto morale, cioè, nato nel Moderno per contrastarne paradossalmente (e, oggi lo si sa, illusoriamente) l'intima tabe di una inarrestabile attrazione per il pensiero unico e per il totalitarismo che (era evidentemente chiaro sin dal principio) l'avrebbe condotto sulla via della putrefazione.
19 dicembre 2015
Bolle d'alea (20): Enzensberger
Si avvicinano quei giorni dell'anno nei quali è consueto e gradito indirizzare espressioni di augurio a chi segue questo diario con benevolenza.
Soccorre Apollonio, questa volta, Hans Magnus Enzensberger. Il suo Poesie per chi non legge poesia comparve nella traduzione di Ruth Leiser e Franco Fortini nel 1964. Pochi anni dopo, accompagnò Apollonio nella sua prima gioventù, grazie a fotocopie su carta chimica.
Tra altri molto belli e pieni di senno, Poesie per chi non legge poesia contiene un componimento che s'intitola zweifel 'dubbio' (l'iniziale è minuscola, come espressamente tutto il resto, nel tedesco di quel libro).
Allontanandosi dalla traduzione menzionata (invecchiando si diventa spudorati), con intenti augurali Apollonio ne offre un breve passaggio a chi, egli spera, continuerà anche in futuro a fargli dono del suo tempo:
di aprire gli occhi e di vedere:
qualcosa di buono, di dire: ho avuto torto.
dolce giorno, in cui il va-da-sé
va da sé, più o meno!
che trionfo, cassandra,
assaporare un futuro che ti confuta!
qualcosa di nuovo che sia buono (il buono vecchio lo si conosce già...)
9 dicembre 2015
Sommessi commenti sul Moderno (20): L'ultimo professore d'università
Gli ultimi professori d'università in stato di libertà furono visti aggirarsi, individui solitari o in piccoli branchi, verso la fine del secondo decennio del secolo scorso, in selve accademiche europee.
Per la disciplina che sta più a cuore ad Apollonio, si può per es. dare proprio un nome all'ultimo della specie: fu il francese Antoine Meillet. Nato nel 1866, lo si sa morto nel 1936 ma quando già da quasi un decennio egli era appunto scomparso accademicamente.
Il mondo che aveva visto nascere la specie del professore d'università nei primi decenni dell'Ottocento era finito con la fine della prima grande carneficina europea e in dieci anni l'ambiente sociale era già divenuto incompatibile con la sopravvivenza della specie in libertà.
La deriva di massa presa dall'illusione della modernità liberale sette-ottocentesca s'accompagnava di necessità con il fordismo, di là dell'Atlantico, e, di qua, con altre ben note varianti del totalitarismo socio-politico, ideologicamente aggressive e temporaneamente anche molto violente in modo aperto. Si trattava di un ecosistema a cui il professore d'università faceva molta fatica ad adattarsi e che ne metteva a repentaglio in ogni momento non tanto la vita quanto l'incolumità morale.
Nello stesso torno di tempo, mentre scompariva appunto il professore d'università allo stato brado, fu messo in atto un programma sociale di riproduzione della specie in cattività, prima su piccola scala poi via via su scala sempre maggiore.
Si crearono allo scopo ambienti artificiali, che furono sempre definiti università o istituti di ricerca e di istruzione superiore. Questi simulavano l'antica selva accademica in cui appunto aveva un dì prosperato e scorrazzato liberamente la specie allo stato brado. La simulavano anche piuttosto credibilmente, vista una certa larghezza della spesa messa nella simulazione.
Il professore d'università vi si poteva infatti muovere con un certo agio. Grande cura era posta inoltre nel fargli credere che si trattasse ancora di un ambiente naturale. Solo a questa condizione, si pensava, se ne potevano ottenere comportamenti compatibili con le spontanee e ancora richieste prestazioni tipiche della sua indole: un'indole peraltro già ripercossa e quindi moralmente guastata da uno stato di cattività sostanziale. A lungo andare questo aveva cominciato infatti a produrre fenomeni di disamoramento prima del proprio stato, poi della propria natura, infine della vita. Donde una serie piuttosto nutrita di atti di aperto autolesionismo, principalmente morale.
Con il procedere degli anni e con il perfezionamento, intorno agli ultimi due decenni del Novecento, di quel totalitarismo utilitario del profitto che ha segnato l'inizio della piena putrefazione della modernità, l'idea di sostenere i costi di simili bioparchi accademici in cui fare sopravvivere, con il pretesto della formazione della gioventù, una specie dalle attitudini morali e comportamentali ormai incomprensibili non è più parsa praticabile alla società.
Con l'intento di rendere completamente domestica la specie o, che è lo stesso, di eliminarla radicalmente, tutti gli individui che la rappresentano (o pretendono di farlo: la lunga cattività ha infatti prodotto molte storture e mostruosità, nella specie) sono stati trasferiti, secondo il tipo, in stalle, porcili, pollai, ovili, gabbie, voliere e altri ambienti simili, angusti e costrittivi.
Si sono tuttavia sempre fregiati tali ambienti del nome di università o di istituto di ricerca e di istruzione superiore, attrezzandoli alla bisogna, anche allo scopo di assicurare a coloro che vi sono rinchiusi la permanente illusione di continuare a essere appunto professori di università (così infatti tra loro ancora si appellano e vengono socialmente appellati).
In tali contesti e con grande spreco mistificatorio di valutazioni e di giudizi di merito e di eccellenza, le ormai pallide figure vengono continuamente vessate con l'adempimento di procedure insensate e, d'altra parte, sollecitate a una produttività e a una diligenza di ricerca e di insegnamento che o sono sostanzialmente onanistiche o hanno esiti che sono immediatamente sottratti al loro controllo e trasferiti, per lo sfruttamento di norma economico, in settori sociali diversi, meglio governati appunto secondo l'imperante ideologia totalitaria del profitto.
Il destino della specie del professore d'università pare dunque e ormai da gran tempo segnato né si può sperare che esso possa essere mutato dai pochi esemplari che, pur sapendo dell'inutilità del gesto, si sono sottratti al trasferimento, rifugiandosi in ambienti diversi ma non necessariamente meno ostili alle loro naturali pratiche di vita libera, o, pur ridotti nelle stalle, nei porcili, nei pollai, negli ovili, nelle gabbie, nelle voliere, vi si atteggiano ridicolmente e vanamente secondo gli ormai scoloriti ricordi dei modi di un'antica e selvatica libertà.
6 dicembre 2015
3 dicembre 2015
Linguistica candida (33): Linguistiche
C'è da tempo ed è corrente, sotto molteplici fattispecie solo in apparenza contrapposte, una linguistica che ragiona superba sulla lingua.
Per rari e preziosi episodi, c'è d'altra parte una linguistica che modesta ragiona con la lingua.
La seconda è tanto diversa dalla prima da non potere nemmeno esser detta migliore. Incomparabile, piuttosto.
1 dicembre 2015
Linguistica candida (32): Significato e significante [Per i dieci anni di questo diario]
Significato è ciò che, senza significante, non sarebbe significato. Significante, ciò che, senza significato, non sarebbe significante (o, se si preferisce, sarebbe insignificante).
La ratio di una scelta che non fu solo terminologica ma anche congiuntamente sperimentale e speculativa risiede in un rapporto reso tangibile e linguisticamente concreto dalla coppia inscindibile di due forme nominali del verbo: signifié, signifiant.
Così presentato (genialmente, vien fatto di dire, sfidando con tale espressione ammirativa il ridicolo della ridondanza), il rapporto viene fuori dall'intreccio di funzioni sintattiche (con significato, l'oggetto; con significante, il soggetto), di diatesi (con significato, il passivo; con significante, il non-passivo - o l'attivo, se si preferisce), di aspetto (con significato, il perfettivo; con significante, il non-perfettivo - o l'imperfettivo, se si preferisce). E funzioni sintattiche, diatesi e aspetto stanno nel nocciolo del sistema della lingua, dove appunto si genera per correlazione la differenza. Anche quella che, nella funzione segnica, permette di cogliere, ma senza che mai si separino e solo da due diverse prospettive, signifié e signifiant.
[Oggi questo diario compie dieci anni: ai suoi due lettori farà forse piacere leggere (o rileggere?) anche il frustolo saussuriano del suo esordio. Per festeggiare sommessamente la ricorrenza, soccorrono Apollonio, come si vede, le sue consuete debolezze di pensiero e di affetto e la futile urgenza di ricordare che Ferdinand de Saussure fu rigorosamente un linguista e non genericamente un filosofo, come da parecchi decenni crede e tende a far credere la maggioranza di coloro che lo menzionano. L'immagine - Ferdinand de Saussure, Bal costumé 1901, Lacombe et Arlaud, Genève, Archives Jacques et Philippe de Saussure 2013 - è tratta dalla copertina di Ferdinand de Saussure, Une vie en lettres, Diachronie dressée par Claudia Mejía Quijiano, Éditions Nouvelles Cécile Defaut, Nantes 2014.]
22 novembre 2015
...dal sen fuggita (1)
Del resto, tolto il riferimento alla gioventù, la stessa cosa si può forse dire di questo frustolo medesimo.
11 novembre 2015
Pasolini come sintomo
La burrasca commemorativa è quasi passata. Con un fiato a stento percettibile, vi ha contribuito anche Apollonio. Al suo frustolo ha dato peraltro un titolo che, già pochi minuti dopo averlo messo in circolazione, gli parve lente male appropriata: lente che sfoca ciò che inquadra.
"Pasolini come sintomo" avrebbe forse colto meglio il succo di quel frustolo radicalmente figurato. Pasolini fu in effetti un sintomo, per l'intero corso della sua vita pubblica. Tutto ciò che egli fece e lo riguardò fu sintomatico.
Ancora oggi Pasolini, meglio, la sua metonimia e la sua prosopopea sono i riflessi di un forte sintomo antico e sono sintomi dello stato dell'oggi nazionale, ovviamente più modesti. Passata la burrasca e annusatene non poche folate (tutte, impossibile!), Apollonio ne è vieppiù convinto.
L'essere un sintomo, il costituirsi (forse per consapevole incapacità di poter fare di meglio) a sintomo furono e sono la ragione del suo valore. Di tale valore, però, continuano a essere, come furono, il limite invalicabile.
4 novembre 2015
31 ottobre 2015
San Pier Paolo
Con la rara eccezione di qualche vena marginale o, forse meglio, di qualche figura solitaria, il ceto intellettuale italiano, pur diviso in fazioni, affonda comunemente le sue radici in un humus clericale. Né la qualificazione va qui intesa come se fosse espressa a suo disdoro.
Si tratta del resto di un dato di fatto tanto storicamente evidente e pregnante che è certo inutile prendersi la pena di affermarlo. Meglio, di ribadirlo: è stato infatti già molte volte osservato, da sguardi acuti e autorevoli.
Capita però che, come di altre ovvietà nazionali (fragilità del territorio, acuta predisposizione al familismo e così via), ci se ne scordi. E capita così che, di tanto in tanto, un campione di tale ceto lo scopra (o faccia sembiante di scoprirlo) a proposito delle conventicole altrui (difficilmente della propria, quasi mai di se medesimo) e ne affetti sorpresa o ne meni scandalo.
Se Apollonio affettasse sorpresa di tali (simulate) sorprese o menasse scandalo degli scandali connessi sarebbe ancora più sciocco di come egli è. C'è da meravigliarsi infatti dei temporali autunnali? E dare del bipede a un essere umano è oltraggiarlo?
A fare dei chierici italiani ciò che sono è stata una storia millenaria, peraltro piena di pagine culturalmente gloriosissime, oltre che, come tutte le storie, irrefutabile. Secondo regole, essa ha prodotto così i chierici regolari e, regolarmente, anche i chierici regolari che additano, con sorpresa, scandalo e riprovazione, il clericalismo degli appartenenti a un ordine diverso dal proprio.
Più ragionevolmente e con sorridente rassegnazione, bisogna invece prendere i chierici italiani per ciò che sono. Del resto, come quelli di altre nazioni e come tutti, non hanno solo difetti.
Tra le spie acutissime del persistente habitus moralmente clericale del ceto intellettuale italiano, c'è il suo impulso irrefrenabile alla canonizzazione dei suoi esponenti più eminenti e naturalmente, di preferenza, defunti.
Solo di preferenza, però, dal momento che non sono rare le canonizzazioni di viventi: l'allungamento medio della vita sta peraltro favorendo il fenomeno. E gli anziani santi in circolazione proliferano, a credere alle gazzette e a quei festival che, ormai capillarmente diffusi sul territorio nazionale, non si può dire non somiglino alle tradizionali e altrettanto diffuse feste paesane del santo patrono. E, dietro l'esempio dei più anziani, una canonizzazione auguralmente prossima prospettano a se medesimi i meno anziani, come obiettivo della loro militanza. L'esempio è del resto un grande motore per la pratica delle virtù eroiche che conducono alla santità.
Correlativamente, si fa intensa (restando tuttavia sempre economicamente modesta) l'attività di stampa e diffusione di immaginette sacre. Beghine e beghini di nuova fattura ma di vecchio conio le collezionano e le commentano con un fervore che la comunione morale e sentimentale così istituita fa crescere sovente a dismisura.
Se sono già santi parecchi vivi, ci si figuri quanto santi sono i suoi defunti, per il ceto intellettuale italiano. Il culto dei santi defunti vi attraversa periodicamente fasi parossistiche. Ne dànno occasione quelle commemorazioni anniversarie che moltiplicano i riti e le pubblicazioni di stile e d'intento agiografici.
Al pari di quanto accade con i santi della religione nazionale tradizionale, anche tra quelli del ceto intellettuale italiano, ci sono del resto i tipi, come specificazione della virtù condotta al suo estremo o della faccetta del passaggio per il mondo da considerare pertinente in funzione della canonizzazione. Non si sa se ci siano, è vero, i vergini ma certamente ci sono (e non si faccia caso al genere: è solo il non-marcato) i papi, i vescovi, gli abati, i dottori, i catechisti, gli eremiti, gli anacoreti, i pellegrini, i fondatori di ordini e altre categorie rilevanti.
Ci sono naturalmente anche i martiri. Lo ricordano ad Apollonio, proprio in questi giorni, le celebrazioni commemorative di un grande santo del ceto intellettuale italiano, nel cui nome Apollonio trovò, anni fa, un anagramma forse irriverente, ma (gli si creda) irriverente per via di un sorriso oltremodo rispettoso.
Di tale santo, è impossibile dire che, con acuta intelligenza, non avesse chiaro di qual genere fosse la stoffa morale della società intellettuale in cui ebbe a giocare un gran ruolo. Come è impossibile dire di lui che non fece di tutto per prendervi dimensioni e figura di santo, una volta fattosi perfettamente coerente con tale stoffa, per chiare doti naturali, nella sua regolarissima irregolarità.
In questi giorni circolano appunto tante reliquie di san Pier Paolo. E circolano, per profluvio, le sue immaginette sacre. Difficile trattenersi dal dire che Pasolini ha oggi proprio ciò che allora acutamente immaginò e volle fortemente che il futuro gli riservasse: la fama e il destino di un martire santo.
30 ottobre 2015
Nomen, non me (13)
SANNO LE ZIZZANIE DI GAIA MORTADELLA? NO!
[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta.]
Parabole (3): "Ma il cielo è sempre più blu"
Estrapolando una frase dal suo contesto - lo si dice sempre ed è quasi un adagio - si può far dire a chiunque qualsiasi cosa.
Un'illustrazione lampante dell'evenienza è disponibile in questi giorni. "Ma il cielo è sempre più blu" dice il ritornello di una canzonetta degli anni Settanta del secolo scorso di Rino Gaetano, cantautore della cui vena amara e ironica (se non disperata, come si incaricò di confermare tristemente la sua giovane vita spezzata) è difficile dubitare. Del resto, per rendersene conto o per ricordarsene, non sarà necessario ai due lettori di Apollonio ascoltare per intero gli otto minuti della menzionata canzonetta:
Fuori del contesto di cui faceva parte e inopinatamente depurato da ogni valore di sarcasmo e di contrapposizione (come si diceva, forse anche di una disperazione autentica), un lacerto della parola di un tormentato cantautore, attivo peraltro in un decennio italiano tormentatissimo cui egli non sopravvisse, oggi accompagna e conclude gli annunci (qui raggiungibili) con i quali la Rai celebra i fasti di chiusura e il commendevole successo di Expo. E "Ma il cielo è sempre più blu" vi fa da proiezione espressiva di gloriosa speranza e di speranzosa gloria.
L'anziano filologo quotidiano può solo sorriderne dolceamaramente, pensando a quel povero ragazzone e alla parabola della sua parola distorta. E qui contraddicendosi apertamente, "Il silenzio, il silenzio..." (ma nemmeno quello assicura).
L'anziano filologo quotidiano può solo sorriderne dolceamaramente, pensando a quel povero ragazzone e alla parabola della sua parola distorta. E qui contraddicendosi apertamente, "Il silenzio, il silenzio..." (ma nemmeno quello assicura).
28 ottobre 2015
Linguistica da strapazzo (40): - "La fauci?" - "Io sì, da quando son nato. E tu?"
Ecco una spassosa applicazione, ispirata alla Gnòsi delle fànfole di Fosco Maraini, della proprietà dei nomi propri di non aver senso. Meglio (per non incorrere nell'aporia in cui incorrono i filosofi, cui del resto di capire come funziona la lingua giustamente poco cale), di non avere senso come si trovano ad averlo le parole comuni, pur restando i nomi propri titolari (e come si potrebbe diversamente?) di una forma pronta a fare da vettore, con le sue proprietà manifeste, di associazioni segniche fantasiose ma, si badi bene, tutte rigorosamente sistematiche: metasemantica, propose Maraini di definire la tecnica.
Chi direbbe che Paceco non è un impeccabile aggettivo? E perché in un discorso (in)sensato Frazzanò non dovrebbe poter figurare da perfetta terza persona singolare del passato remoto di un verbo formalmente ineccepibile come l'ipotetico frazzanare? Anzi, visto lo stato in cui si trovano, per via di annosa incuria, il territorio nazionale e il siciliano in particolare, Apollonio propone che un verbo del genere entri nei dizionari, con il significato di 'subire danni, essere diventato impraticabile per via di movimenti del terreno': "È (o "ha"? Decideranno i grammatici) frazzanato di tutto, questo autunno, in Sicilia".
Nella divertente performance, il gioco a tratti si fa troppo facile e scoperto. Ci sono infatti toponimi (ancora) chiaramente correlabili a quei nomi comuni, corredati sovente da attributo, da cui li ha tratti un'antonomasia: Belpasso.
A rendere opachi anche tali toponimi, come ha fatto con tutti gli altri, penserà il tempo ma non c'è da illudersi in proposito che, pur realizzandosi i voti più fausti, Apollonio e i suoi due lettori vedranno quel momento. Quei nomi propri diventeranno solo allora materia per i cacciatori di etimi, gustosa selvaggina linguistica che non ha mai difettato di amatori raffinati, tra i quali si sono sempre contati, ovviamente, anche molti esilaranti millantatori (è la non rara attitudine di chi pratica certi sport).
A rendere opachi anche tali toponimi, come ha fatto con tutti gli altri, penserà il tempo ma non c'è da illudersi in proposito che, pur realizzandosi i voti più fausti, Apollonio e i suoi due lettori vedranno quel momento. Quei nomi propri diventeranno solo allora materia per i cacciatori di etimi, gustosa selvaggina linguistica che non ha mai difettato di amatori raffinati, tra i quali si sono sempre contati, ovviamente, anche molti esilaranti millantatori (è la non rara attitudine di chi pratica certi sport).
Solo una nota pedante, in conclusione, ma dai riflessi morali. Al giovane performer, ma non a lui solo né gliene si può fare una colpa, sfugge che Giancaxio, testimone d'una antica grafia, andrebbe pronunciato come fosse Giancascio, al pari di Muxaro, Xaxa (caso già menzionato in questo diario) e Craxi.
Dove ognun vede come ci siano appunto errori inestirpabili e come sia appunto una "fànfola" che la verità finisce sempre per affermarsi: testardi, irredenti e irriducibili consultino, in proposito, il prezioso Dizionario onomastico della Sicilia del compianto Girolamo Caracausi (naturalmente, "Per combinare il pranzo con la cena, io girolamo come una trottola e tu, sfaccendato incosciente, caracausi per casa in mutande tutto il santo giorno").
[Apollonio non è in grado di eliminare dalle immagini gli eventuali inserti pubblicitari: se ne scusa.]
Dove ognun vede come ci siano appunto errori inestirpabili e come sia appunto una "fànfola" che la verità finisce sempre per affermarsi: testardi, irredenti e irriducibili consultino, in proposito, il prezioso Dizionario onomastico della Sicilia del compianto Girolamo Caracausi (naturalmente, "Per combinare il pranzo con la cena, io girolamo come una trottola e tu, sfaccendato incosciente, caracausi per casa in mutande tutto il santo giorno").
[Apollonio non è in grado di eliminare dalle immagini gli eventuali inserti pubblicitari: se ne scusa.]
25 ottobre 2015
Farse in due battute (14)
- ...del resto, se a farlo non ci fossi io, ci sarebbe certo qualche altro...
- Proprio così. Ed è esattamente la ragione per cui è significativo che, a farlo, ci sia appunto tu e non un altro.
11 ottobre 2015
Caratteri (20): Il fine intenditore dell'intelligenza
È un narcisista sofisticato chi, qual fine intenditore dell'intelligenza, ne distribuisce regolari lodi pubbliche, a dritta e a manca. Sa infatti che tutte gli verranno rese, con gli interessi, dall'umana vanità: chi ammetterebbe mai che a procurargli lode d'intelligenza è uno sciocco? Lo stagno, come uno specchio, gli confermerà così, amplificata nei suoi molteplici riflessi, la convinzione che è lui senz'altro il più intelligente del reame.
9 ottobre 2015
A frusto a frusto (99)
Alla credibilità morale dell'affermazione, consolatoria e autoassolutoria, che chi vale finisce prima o poi per imporsi (e, così, per sopravvivere) gioverebbe molto che, anche solo di tanto in tanto, a proferirla fosse un "sommerso" e non un "salvato", come capita invece con regolarità.
La bolla speculativa della parola edificante
C'è un gran proliferare di parole edificanti nell'ambiente intellettuale degli ultimi decenni e non c'è più quasi nessuno che apra bocca o prenda una penna, senza che si atteggi a farlo per nobili fini di costruzione e di elevazione morale dell'umanità (o di ogni altra porzione dell'umano consorzio).
Per similitudine, il caso materiale dell'intensa edificazione del territorio dovrebbe mettere in guardia.
Dovrebbe insinuare il sospetto che, anche a fondamento di un'edificazione morale frenetica come è la presente, ci sia anzitutto un'attitudine speculativa (a rischio di rivelarsi una bolla, quindi) e che chi edifica e, sul già esistente, prospetta elevazioni, per ipocrisia o per insipienza e in barba al bene comune, persegua in realtà privati tornaconti, consensi facili e plaudenti, modeste prebende e premi che, date le ristrettezze dei tempi, sono necessariamente miseri.
Dovrebbe insinuare il sospetto che, anche a fondamento di un'edificazione morale frenetica come è la presente, ci sia anzitutto un'attitudine speculativa (a rischio di rivelarsi una bolla, quindi) e che chi edifica e, sul già esistente, prospetta elevazioni, per ipocrisia o per insipienza e in barba al bene comune, persegua in realtà privati tornaconti, consensi facili e plaudenti, modeste prebende e premi che, date le ristrettezze dei tempi, sono necessariamente miseri.
Le sue edificazioni ed elevazioni morali devastano frattanto l'ambiente spirituale, che in essenza è invece vario e composito e da cui spontaneamente, senza che nessuno voglia, sappia o possa indurla, nasce l'intelligenza, come del resto dal materiale e naturale (e non dalle speculazioni edilizie) nasce la vita.
E con l'intelligenza, salvandosi da edificazioni ed elevazioni, sbocciano come profumati fiori di campo anche pensieri probi e, talvolta, persino quella buona letteratura che appunto non è mai stata, non è né mai sarà parola edificante.
E con l'intelligenza, salvandosi da edificazioni ed elevazioni, sbocciano come profumati fiori di campo anche pensieri probi e, talvolta, persino quella buona letteratura che appunto non è mai stata, non è né mai sarà parola edificante.
Cronache dal demo di Colono (37): Ancora esiti dell'abbaglio di Porta Pia
La storia, quella vera che intreccia rigorosamente vita e civiltà di comunità umane complesse, non fa sconti e presenta per secoli il conto di atti sconsiderati e violenti. Quando dell'avere dimenticato tutto si fa vanto paradossale, con pretesa che sia buona condizione per vivere bene il presente e guardare al futuro, ci si chiede allora il perché di piaghe purulente e resistenti a cure in realtà solo velleitarie e immaginarie. Al primo errore, che aprì la breccia, si aggiungono errori in serie infinita. E non si capisce che, centocinquanta anni fa, Roma la si sarebbe dovuta lasciare amministrare al Papa, che vi signoreggiava, sebbene temporalmente, da ben più di un millennio, con qualche non trascurabile successo. E forse, come sola via di riparazione, sarebbe il caso di chiedere al Papa, rivolgendogli molte scuse, la cortesia di riprendersela, più guasta di come gliela si prese e come la si è frattanto ridotta.
8 ottobre 2015
Sommessi commenti sul Moderno (19): Grand Tour
Andare a vedere, anzitutto. Con pretesa, talvolta, di capire. Come se andare bastasse o fosse necessario per vedere. Come se vedere bastasse o fosse necessario per capire.
La catastrofe antropologica contemporanea che va sotto il nome di turismo ha una ragione morale - l'economica ne è solo un riflesso. È una rovinosa mancanza di immaginazione, combinata ovviamente con la disponibilità di mezzi che, ritenuti atti a sopperirvi, la incoraggiano e ne amplificano gli effetti.
Non va taciuto però che la velenosa linfa che nutre il turismo viene dal cuore del Moderno. Anche per questo aspetto, malgrado le sue pose e le sue pretese, il Moderno si rivela per ciò che veramente fu: il ritorno di una civiltà ormai più che matura verso una nuova infanzia improvvida e pericolosa, l'esordio conclamato di quel rimbambimento che oggi si vive in forme già più che macroscopiche. Minacciose di non essere ancora le piene, però, visto che crescono gli strumenti con cui questa vecchiaia demente e generalizzata può dilettarsi a rompere il giocattolo, per andare a vederlo, con risibile pretesa di capirlo.
5 ottobre 2015
Lo strambo paradosso della rivendicazione di utilità (sociale) dell'otium
Affiora qui e là in questi giorni, anche in scritti peraltro commendevoli di sodali di Apollonio, la rivendicazione dell'utilità (sociale) dell'otium. L'intenzione è buona ma di buone intenzioni, dice l'adagio, è lastricata la via dell'inferno. E ricondurre anche l'otium all'utile, con la scusa di giustificarne l'esistenza e di redimerlo così nella considerazione del mondo, è per sostanziale paradosso condannarlo all'inferno di un assoluto ideologico e alle sue pratiche perverse e diaboliche.
Dell'esistenza umana nel mondo, fin dal momento in cui essa ha lasciato tracce intellegibili, non si può dire che non sia stata, in un modo o nell'altro, orientata da fini di (apparente) utilità e da fini che, chi li aveva (perché non c'è fine che non risieda in un soggetto che se lo pone come tale), immaginava coincidessero con i propri interessi (interesse al benessere, alla sopravvivenza e a ogni altro agio: per es. a godere dell'ozio; si badi bene, dell'ozio; l'otium è altro).
Messa pure da parte ogni considerazione sulla frequente fallacia di simili prospettive (i disegni umani non sbagliano sempre, che sarebbe pure una certezza; sbagliano senza che si possa sapere con certezza quando sbaglieranno e i conti si fanno impietosamente quando l'imponderabile errore è ormai fatto), la pacifica, onesta, condivisibile constatazione dell'orientamento umano all'utile diventa ideologia (e pericolosissima ideologia) nel momento in cui fa dell'orientamento a tale fine il principio unico non solo dell'agire degli esseri umani nel mondo (che sarebbe già esagerato) ma della loro intera esistenza. Esistere sarebbe concepire, avere il fine del conseguimento di un utile e orientarsi verso esso. E l'essere umano una macchina conseguente, come se l'utile come fine fosse in fin dei conti l'essenza e il fine dell'umanità.
Come tutte le idee che assolutizzano un aspetto dello sfaccettato insistere dell'umanità sulla terra, anche questa è perniciosa e funesta, oltre che di rara volgarità. Può capitare che talvolta, agghindata per le feste e avanzando con sussiego tra cortine fumogene, essa frequenti i raffinati salotti delle due culture, tanto l'umanistica quanto la scientifica, e che sia faticoso smascherarla. Uno stato delle cose tale da ispirare, insomma, il rovesciamento teoretico di un vieto luogo comune morale. Non "il fine giustifica i mezzi" ma gli scarsi mezzi di cui dispone, di norma, l'ingegno di chi prova a farsi una ragione dell'esistenza e dell'agire umani giustificano l'incontrollato proliferare dei fini e dei fini orientati all'utile, in solo presunti tentativi di spiegazione.
L'otium (come altro che qui non si elenca, per evitare corrività e soggettivismi, e che i due lettori di Apollonio potranno integrare come a loro piacerà) non è dunque utile perché non è riconducibile alla categoria dell'utile. La delimita anzi, come il termine marcato e positivo di un'opposizione, il cui altro termine è appunto, come negazione della sua marcatezza, il negotium. Qui, e non in riferimento all'otium, l'utile e le prospettive che mirano al suo conseguimento hanno un ruolo importante. Non da sole, peraltro.
Ed è dunque per una ragione teoretica (o di etica della conoscenza, se si vuole), prima che per banali ragioni morali (e ce ne sono molte, banalissime, che parlano al suo cuore ma che qui è giusto tacciano), che Apollonio non condivide le argomentazioni, pur commendevoli nelle intenzioni, di quei suoi sodali (e di altri, che Apollonio teme meno puri di cuore) quando capita che difendano come infine utili le manifestazioni dell'otium contingenti e, attualmente, in via di grave deperimento nella considerazione universale.
Di ciò che non serve a nulla va invece detto apertamente e con onestà che non serve a nulla e che proprio in questa assenza d'utile risiedono forse per la gran parte il suo valore e il suo pregio.
2 ottobre 2015
Lingua nostra (9): "Disfando"
"...in un contesto che si sta disfando" dice il simpatico e garbato conduttore del programma televisivo d'un canale culturale della RAI, al cospetto del professore d'università di turno che, forse anche perché straniero, non fa una piega.
E dopo pochi secondi, di nuovo: "...si sta disfando". Per lui, evidentemente, è questa, con naturalezza d'espressione, la forma del gerundio di disfare. Gliene si vorrà per questo? Si sarebbe ingenerosi, oltre che insopportabilmente pedanti. Se lo si interrogasse in proposito, quel conduttore, certamente sarebbe capace di compitare la forma che le grammatiche riferiscono come corretta e, informato della ragione dell'interrogazione, direbbe stupefatto: "Io, disfando? Ma quando mai...". E invece sì. Testimone Gilles Pécout, il professore foresto, tra il ventisettesimo e il ventottesimo minuto della trasmissione (tema, quel pericoloso scavezzacollo di Gioacchino Murat) peraltro molto ben fatta, divertente e istruttiva.
Un'interrogazione grammaticale è però cosa ben diversa dell'attività di parola. Spesso i censori se ne scordano. Non sono i soli, del resto; ci sono scienziati che dicono di studiare appunto scientificamente come son messe le parole nel cervello umano giocando a farne dire un po' alle loro cavie, secondo vari stimoli, e ci sono filosofi che li prendono sul serio. Ma s'è mai visto qualcuno che, fuori degli esperimenti scientifici organizzati scientificamente da quegli scienziati, abbia simili comportamenti? Cosa studiano allora scientificamente quegli scienziati? La lingua? C'è da dubitarne. Una deliziosa fantasia, loro e dei filosofi che ci credono, piuttosto.
Appunto, con la funzione metalinguistica in primo piano (e in un primo piano distorto da un esplicito insegnamento e apprendimento normativo o da un'esplicita richiesta) un'interrogazione grammaticale è però cosa ben diversa dell'attività di parola, dove non è che la pratica valga più della grammatica (come dicono i grossolani) ma la grammatica - rigorosissima - ha vie sistematiche che il grammatico (quello delle regole) conosce poco (o capita che nemmeno conosca).
A chi, del resto, non è venuto fatto, parlando, di disfare un'eccezione: da bambini, e prima di venire traviati da maestre e maestri, a bizzeffe. E Apollonio ricorda sempre con struggente tenerezza un "Aspettami papà, vieno" che, lanciato da un verone del paterno ostello, carezzò le sue orecchie sono ormai forse troppi anni. Disfare è poi più di un'eccezione, è una collezione di eccezioni. Come quel fare su cui è fatto ma che tutti si rispetta perché se si disfa fare come si fa?
Nel caso specifico, poi, non c'è da farla lunga, come la sta facendo Apollonio. La faccenda del "disfando" si fa lungo linee chiare e ben note ai filologi: tendenziale regolarizzazione del paradigma come riflesso particolare dell'analogia. Gran motore del mutamento linguistico, l'analogia. Una forza che - i parlanti che ne vengono "agiti" raramente se ne rendono conto - le lingue (soprattutto in superficie), le disfa e le fa. Con il tempo e nella storia.
Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (21): Complicità
C'è la convergenza d'interessi, ordinaria e bottegaia. All'opposto, rarissima e preziosa al pari d'una grazia, c'è la complicità, non di rado accidentata, come ha da essere, se è tra persone autentiche. Fuori di ciò che la natura rende un obbligo, forse non c'è niente meritevole d'esistere il cui valore domandi imperativamente il concorso di più d'un essere umano. Ma se c'è, si tratti di una grande impresa, di un amore, di un crimine, della compagnia per un tratto di vita, per realizzare il suo valore potenziale, ciò che merita di esistere, a quegli esseri umani, altrettanto imperativamente domanda la complicità.
A frusto a frusto (98)
Prova di virtù eroica (forse la sola): resistere alla tentazione di proclamare che il mondo non va nel verso giusto solo perché non va in un verso che piace.
29 settembre 2015
Trucioli di critica linguistica (22): Attaccarsi al tram
Ha spirito chi cura la comunicazione dell'azienda di trasporti pubblici di Zurigo, che di passaggio illustra anche gustosamente, ai suoi utenti di innumerevoli fedi e nazioni, qual si mantengano i rapporti di reciproca considerazione tra tribù germaniche diverse, quando una di queste sia idealmente rimasta libera di esprimersi in proposito e non sia stata ubriacata dai nazionalismi europei del Moderno, la cui stoffa s'è fatta chiara nel Novecento (anche gli Italiani dovrebbero saperne qualcosa).
Sopra uno sfondo immacolato e specchiante (il suo ambiente: l'ambiente cittadino), ecco la vettura tradizionale e rilucente della linea di trasporto pubblico che ha il verde come tratto cromatico d'identificazione.
E soprattutto lo schiaffo, tanto più ironico perché crucialmente riferito alla lingua, di riportare Volkswagen alla sua natura di nome comune, alla sua schietta referenzialità, alla piana efficienza quotidiana di ciò che designa o dovrebbe o avrebbe dovuto designare, se in un momento sommamente infausto per la storia d'Europa l'espressione non fosse stata ideologicamente innalzata al rango di nome proprio, di marca, di emblema di un sistema in cui la ragionevolezza precipitava. Cosa che la ragionevolezza continua forse a fare, malgrado le apparenze, e su scala planetaria.
Per cui, vien fatto di pensare a un italofono in libera interpretazione associativa, la sola risorsa che rimane è di attaccarsi al tram.
26 settembre 2015
Caratteri (19): I primi della classe
Lo sanno, i primi della classe, d'essere già a stento tollerabili. E sanno anche che cessano d'esserlo appena s'accostano alla lavagna per fare la lista dei buoni e dei cattivi. Ma l'infame vizio li possiede.
A frusto a frusto (97)
Solo l'ammissione serena dei propri errori e lo spassionato racconto delle proprie sconfitte sono in grado di reggere il peso di un io. Ed è d'uopo ricordarsene quando s'apre bocca o s'impugna una penna.
25 settembre 2015
Trucioli di critica linguistica (21): Testa e mano (e Vasco Rossi col pretesto di Roman Jakobson)
Sta alle cose elementari l'espressione di Vasco Rossi, di cui altre volte in questo diario si è appunto detto - e facilmente - che, come personaggio della sua opera (come essere umano, chi lo sa?), tra tutte le persone grammaticali, sta probamente ancorato a un io.
Né pretende di dare voce a nessuno, se non a ciascuno che stia appunto ancorato alla sua propria prima persona e, nell'eventualità, senza identificarsi, trovi ragione di prendere a prestito quelle fin troppo semplici parole.
Una via all'universale, insomma, temperata dalla stretta adesione all'italiano e, di nuovo, a un italiano elementare - ma come potrebbe diversamente, visto che della rivendicazione di un io e della relativa esperienza si tratta?
Ne consegue un'attitudine che s'astiene ovviamente dalla retorica, principalmente da quella per il bene che inquina talvolta la pur non disonesta vena dell'altro e di un decennio più giovane rocker emiliano, per tale ragione più facilmente nell'orbita del noi e del conseguente difetto d'ironia. Anche sui diversi accostamenti al luogo comune e alla frase fatta dei due ci sarebbe da rilevare contrasti ma Apollonio si riserva di tornarci, ci fosse l'occasione, in un futuro frustolo.
Qui, il tema, anzi, i temi sono testa e mano: tra quelli che i due fedeli lettori di questo diario conoscono già come chiodi fissi di Apollonio forse perché metonimie d'elezione del tratto pertinente di umanità, contro il quale la sua riflessione urta incessantemente, come urta contro un vetro il volo di una mosca attratta da ciò che al suo apparato visivo si presenta come luminosità diurna.
A combinarsi segnicamente con la canzone (a sua volta unione segnica di musica e parole), c'è infatti una narrazione per immagini anch'essa elementare per contenuti e struttura e i cui protagonisti sono appunto, metonimicamente, la testa e la mano, qui e nel séguito al singolare, ma con valore eventualmente collettivo.
Nella narrazione, testa e mano sono complementari per genere (non grammaticale: l'una è maschile e non è glabra, l'altra non è maschile e non ha peli), per numero (l'una singolare, l'altra, secondo le circostanze, quindi in modo non-marcato, singolare o plurale) e per persona.
Titolare nell'enunciato dell'enunciazione, la prima (persona, maschile, singolare) canta, appare immediatamente ed è sostanzialmente fissa (pur nel cambiamento dell'inquadratura, in un paio di occasioni di profilo). La seconda (persona, non-maschile, non solo singolare) compare quando la storia ha già preso l'avvio, è in continua e sinuosa agitazione, talvolta è carezzevole ma la sua ultima interazione, con la prima, è uno schiaffo.
Talvolta sola in scena in funzione di variatio coreografica, per il resto, in rapporto sintagmatico con la testa, la mano, da un lato, fa da muto controcanto, dall'altro, da muto commento. Sopra uno sfondo nero, accompagna per opposizione (come s'intende con chiarezza nel momento in cui si trova a coprirle) due loquaci isole celesti e il loquace andamento rosa delle labbra, disponendo, sopra un opportuno pallore contrastivo, cinque o dieci mobili macchie vivamente rosse, in funzione del momento narrativo.
Quante volte è il titolo della canzone e, del resto, il nesso che, per iterazione se ne fa l'emblema: appunto, a mano a mano.
E il vaso o i vasi, dai tenui coloriti rosa o celeste, che, in fase di esplosione e per nebulosi frantumi, da un certo momento in avanti occupano, per opposizione paradigmatica, lo spazio figurativo della testa, rivelano, sul limite della conclusione e al ricomporsi dell'immagine, d'esserne la metafora.
Una metafora, si badi bene, che ironicamente restituisce testa al suo etimo crudo e, al suo tempo, oltraggioso. La restituiscono quindi, in senso proprio, alla sua ironica verità.
E un'ironica verità merita, in fondo, un sorriso sospeso tra la complicità - ovviamente, con la vita - e la sfida.
[Il pedaggio dell'annuncio pubblicitario non è naturalmente Apollonio a imporlo, ma ne chiede venia.]
24 settembre 2015
Punteggiatura del ridicolo e senso del festival
Guardano allo stesso mare, sebbene da due prospettive diverse, la ligure e la toscana, e s'aprono ambedue domani il Festival della punteggiatura e Il senso del ridicolo.
Puro e semplice accidente? Carl Gustav Jung lo avrebbe escluso e non avrebbe esitato a parlare, in proposito, di un lampante esempio di sincronicità. Uno di quelli che, a saperli intendere, rivelano qual è il vero valore delle cose che accadono nell'ordine nascosto del mondo (ne sorriderà forse il sodale di Apollonio che è magna pars in uno dei due eventi: buon per lui, quello che pare il più serio).
Cronache dal demo di Colono (36): Oggettività
Neue Sachlichkeit la chiamarono appunto i suoi esponenti, molto competenti, quanto a ciò che intesero rappresentare con un'incisiva Nuova Oggettività.
Non stupisce lo stupore di chi, ignorandone l'esistenza o avendone scordata la lezione di critica spietata e preveggente, casca periodicamente dal pero e si stupisce (o, dando la prova oggi più certa dei suoi alti sentimenti morali, si indigna).
[In proposito, anni fa, un truciolo di critica linguistica, nella prospettiva odierna forse un po' più spassoso ma sopra un tema, un'attitudine e forse uno spirito sempre tremendamente inquietanti.]
Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (20): La lingua e il mondo
Bisogna ancora e sempre scacciare dalla riflessione sulla lingua la perniciosa idea di un mondo senza lingua per provare a capire come va la lingua e, a partire da lì, come va il mondo.
20 settembre 2015
Cronache dal demo di Colono (35): In principio, alla fine
Tocca oggi a Stanisław Lec di venire evocato in una gazzetta culturale per la settimanale composizione d'un pettinatissimo fervorino, che nell'occasione olezza inoltre di Santa Inquisizione.
Di Lec Pietro Marchesani scrive opportunamente che, privo di "moralismo didascalico o superbia intellettuale", ebbe inoltre "una repulsione istintiva per i panni del fustigatore o del predicatore".
Apollonio lenisce la sua pena, ricordando con un amaro sorriso che a Lec capitò di scrivere, presago, "Era un progressista-religioso, concordava sul fatto che l'uomo discenda dalle scimmie, ma da quelle dell'arca di Noè". E, in modo definitivo, "In principio era il Verbo - e alla fine, le chiacchiere".
19 settembre 2015
Cose (2): Poltrone
L'oratore, in piedi. Seduto, chi lo ascoltava. Per rispetto dell'uno verso l'altro. Ma anche per pagare il pegno d'una maggiore scomodità: con la correlata fatica, memento per il primo del fatto che stava godendo di attenzione e pazienza magari donate con entusiasmo ma di cui era sempre anzitutto buona educazione evitare di approfittare troppo. E ammonizione dell'eccezionalità e, al tempo stesso, della precarietà del possesso della parola. Chi parlava aveva da mostrarsi pronto ad andarsene. A svignarsela, dandosi il caso, ove la sua parola fosse stata sgradita. Un tempo...
Oggi, invece, a giro per festival ed eventi culturali, lo si trova di norma in poltrona, l'oratore, o sul sofà. Chiacchiera, comodo e soddisfatto, con interlocutori che si comportano da compari, anche quando fanno sembiante di bisticcio.
Con il conquiso morbido sotto le terga, è pronto a offrire per ore a chi lo ascolta e a delibare con placida riflessività la sua propria voce, supportata da microfono. Dio non voglia, gli si affatichi anche solo quella. E il pubblico? Su seggiole spesso malferme. Sensibile quindi, anche nel confronto, alla stabile autorevolezza della poltrona, donde appunto i fiati olezzanti promanano.
Poltrone. Un giorno si dirà: fu cultura da poltrone.
[Il format? L'ormai agonizzante talk show televisivo, ovviamente, con i suoi campionari di bizzarrie e ovvietà: esempio lampante di osmosi, con interessante flusso in salita, di pop e middlebrow.]
18 settembre 2015
Parabole (2): Calvino, Pasolini, Sciascia (come chiosa al frustolo che precede)
Italo Calvino: in funzione della sua vicenda umana, tra Santiago de las Vegas e Siena c'è una parabola che va da un valore alto a uno basso o nullo.
Il luogo di nascita di Calvino irraggiò aspetti crucialmente sistematici della sua vita e della sua opera. Quello di morte ingoiò l'una e l'altra come il foro oscuro di un accidente: una città come un'altra (e ci sarebbe da stupirsi se Siena ne menasse vanto).
Non va sempre così. Non era andata così, per esempio, dieci anni prima per Pier Paolo Pasolini, per il quale fu il necessario luogo della morte più di quello della nascita, accidentale, a parere coerente col palese ordine sistematico di opera e vita. Morire ad Ostia, quanto a Pasolini, ebbe più significato d'esser nato a Bologna.
Luogo di nascita e di morte furono infine ambedue strettamente convenienti al sistema di Leonardo Sciascia, dei tre, il primo a venire al mondo, l'ultimo a lasciarlo. A un'inderogabile Racalmuto fece da specchio non la Parigi immaginaria ma l'inevitabile Palermo.
Sommessi commenti sul Moderno (18): Prender casa in Maremma
Le conseguenze degli atti umani? Imprevedibili e, talvolta, definitive. Prendi casa di vacanza in Maremma, per esempio, e ti capita di morire in un'inopinata Siena.
14 settembre 2015
Linguistica candida (31): Che figura!
Esprimersi è produrre metafore, nascenti o ormai nate, vive o non più vive e quindi spente. L'hanno osservato molti saggi e da gran tempo. Quintiliano, per esempio, sulla cui opinione in proposito un carissimo e mai dimenticato amico chiamò molti anni fa l'attenzione di Apollonio. E Giacomo Leopardi, sulla cui idea di metafora proprio di recente gli è invece a sua volta capitato di riflettere in compagnia di giovani sodali.
Esprimersi e sperare (o temere) che la propria espressione si sedimenti anche solo il tempo bastevole a renderla menzionabile da qualcuno nel discorso o in modo meno effimero - nel caso dei più cari alla fortuna e per via di supporti strumentali come la scrittura - è però incorrere senza scampo in una metonimia.
Solo in virtù di tale contiguità concettuale tra espressione ed esprimente s'è del resto potuto qui sopra nominare Quintiliano, Leopardi e, adesso, il medesimo Roman Jakobson che rappresentò metaforicamente in tali termini la figura del discorso.
In questione, naturalmente, non sono loro ma le loro metaforiche parole. Del resto, si è certi che, fuori di tali espressioni, di tutti costoro ci sia qualcosa da dire?
E come si potrebbe del resto parlare o scrivere dell'espressione, si ponga, di un Ludovico Ariosto o di un Primo Levi senza adoperare, nel discorso, l'ineluttabile figura? E i due menzionati (non a caso menzionati) non erano tra i pienamente consapevoli, esprimendosi, di condannarsi a farsi metonimie? Sì, perché ci furono, ci sono, sempre ci saranno anche gli inconsapevoli. Gli ignari, esprimendosi e sovente a sproposito, di andare incontro al destino di figura. E che figura!
Comica condizione dell'espressione umana (naturalmente, non soltanto della strettamente linguistica), unico labile indizio, del resto, dell'esistenza umana: metafora destinata a diventare metonimia.
9 settembre 2015
Linguistica candida (30): Ferdinand e il teatro della doxa
"I legami tra i suoni delle parole e i loro significati, i loro fantasmi, le loro connotazioni affettive sono instabili perché sono convenzioni del tutto arbitrarie", si legge in una laterale evocazione del pensiero di Ferdinand de Saussure, comparsa sul supplemento culturale di un quotidiano italiano, qualche giorno fa. E proseguendo: "Non c’è nulla nella natura delle cose che corrisponda alle parole che le designano. Se ci dimentichiamo il nome di tante cose, ciò si deve al fatto che non esiste nessuna ragione naturale che imponesse a quelle cose di avere quel nome".
C'è naturalmente da rallegrarsi, come linguisti, che il nome di Ferdinand de Saussure ricorra (arbitrariamente?) in sedi siffatte e da esserne grati all'evocatore. Lo si dichiara subito e a scanso d'equivoci. Come si dichiara che si sbaglierebbe a valutare simili epifanie e a dirne, come fossero quelle eventualmente còlte in saggi scientifici (se ne prepara peraltro un profluvio, per l'anno che viene: ricorre infatti il centenario della pubblicazione del celebre libro di Saussure che Saussure non scrisse: il Cours de linguistique générale).
In compagnia dei suoi due lettori (quindi, quasi privatamente), Apollonio non sa tuttavia rinunciare all'occasione di riflettere, solo un momento, sulla buffa alternativa tra incomprensione e silenzio che continua a vigere, quanto al linguista ginevrino.
Se ne tace, di norma: né si può dire che egli in vita, a differenza d'altri maestri del pensiero moderno, fece qualcosa perché il futuro gli accordasse fama. Non scrisse quasi nulla (appunto, nemmeno quel libro che gli fu intestato), non andò in giro a diffondere il verbo, non fondò scuole, non si agitò in modo da attirarsi quelle scomuniche, quegli anatemi, quelle condanne pubbliche che, nel mercato dell'avvenire, sono pregiatissime. Tenne esoterici corsi universitari su temi peregrini: anche quelli che poi gli valsero una notorietà sovente di seconda mano. C'è da chiedersi, infatti, quanti, tra coloro che ne hanno fatto e ne fanno il nome, si siano veramente sottoposti almeno alla prova delle centinaia di pagine di speculazione complessa e noiosa erudizione che conta appunto il menzionato apocrifo.
Se di Saussure si parla, d'altra parte, vengono fuori sequenze come le citate in esordio. Vi capita che il significato si trovi in compagnia di belle e vacue espressioni, come "fantasmi" e "connotazioni affettive". Lo si ribadisce, non se ne vuole qui menare scandalo: è, semplicemente, la vita e come vita va goduta e considerata, non esecrata, in nessuno dei suoi molteplici aspetti.
Per Saussure, invece, signifié (che, a differenza di significato in italiano, non è in francese parola di tutti i giorni) fu risultato d'una faticosa ricerca di un termine univoco, perché a suo modo straniante, atto a designare ciò che egli proponeva come un concetto radicalmente e paradossalmente nuovo, in linguistica: l'esito superficiale di quel rapporto (lo chiamò "funzione segnica") che, sulla superficie correlata, si manifesta come signifiant. Participio passato l'uno, presente l'altro: come amato e amante.
E capita inoltre che, per ragionare di lingua, si finisca regolarmente per ricadere sul rapporto tra le "cose" e le "parole". Si vada cioè a capofitto proprio nella trappola da cui egli cercò (disperatamente, va detto) di fare evadere almeno la sua disciplina, la linguistica, o quella che immaginò come tale.
La linguistica, non il senso comune, la doxa: questa è sempre stata invincibile. Saussure ne fu consapevole, come sulla sua scorta dovrebbe esserne consapevole chiunque pratichi o dica di praticare la sua regola rigorosa, la sua osservanza.
Prova a esserne consapevole anche Apollonio, come può e sa. E sa che la doxa si è appropriata ovviamente anche di Saussure e di tanto in tanto, con adeguata moderazione, lo usa come personaggio del suo teatro. Alle sue apparizioni sulla scena, Apollonio applaude.
5 settembre 2015
Per i filologi del futuro (1): Curiosi bisticci. Di genere
Gran confusione, sotto il cielo. Qualcosa ne verrà fuori. Per il momento, agli e alle amanti della lingua darà delizia osservare all'opera la plasticità del sistema, in primo piano quando preme il mutamento, abbia questo o no esito felice.
E li divertirà vedere come sia nel pallone chi non sa proprio che pesci pigliare, trascinato (o trascinata) com'è da istanze diverse e tutte contestualmente legittime: caso tipico di ironia tragica (nello specifico, più ironia che tragedia, naturalmente).
Non è nel pallone la lingua, ovviamente, che se ne impipa dell'impappinarsi di chi la farfuglia e da qualsiasi bagarre sincronica o diacronica esce inappuntabile come, in un vecchio film, James Bond dalla sua muta (parbleu!).
4 settembre 2015
Lingua nostra (8): "Vivere d'espedienti"
Questo tempo invita a parole, nei fatti spinge e quindi costringe a vivere d'espedienti. Espediente e la locuzione appena menzionata ricorrono però molto di rado, tanto nel discorso pubblico quanto nel privato.
Sono invece le espressioni che definiscono meglio, forse ineccepibilmente, quanto accade oggi materialmente in molti rami dell'attività economica. E moralmente in tutti. Sempre più spesso, chi vuole sbarcare il lunario ha infatti da vivere d'espedienti. E se non lo si ammette, mascherandosi dietro eufemismi foresti e prendendo pose di implausibile sussiego è per pudore, dal lato di chi subisce la temperie, da quello di chi la cavalca, per ipocrisia.
Un esempio: per una questione di decenza, con connessa nascita di un nuovo tabù verbale, il composto affittacamere è ormai fuori dell'uso, quando, andando a spasso per le città italiane, soprattutto per le meno floride, ci si accorge che di nuovi, improvvisati affittacamere, per scelta o per necessità, ce n'è a bizzeffe.
Sono invece le espressioni che definiscono meglio, forse ineccepibilmente, quanto accade oggi materialmente in molti rami dell'attività economica. E moralmente in tutti. Sempre più spesso, chi vuole sbarcare il lunario ha infatti da vivere d'espedienti. E se non lo si ammette, mascherandosi dietro eufemismi foresti e prendendo pose di implausibile sussiego è per pudore, dal lato di chi subisce la temperie, da quello di chi la cavalca, per ipocrisia.
Un esempio: per una questione di decenza, con connessa nascita di un nuovo tabù verbale, il composto affittacamere è ormai fuori dell'uso, quando, andando a spasso per le città italiane, soprattutto per le meno floride, ci si accorge che di nuovi, improvvisati affittacamere, per scelta o per necessità, ce n'è a bizzeffe.
Del resto, questo diario lo ha già detto: più di quelle che ricorrono, sono sovente (forse, sempre) le espressioni che non ricorrono a fare intendere a qual punto sia la notte. Con buona pace dei devoti, peraltro benemeriti, delle ricerche lessicali quantitative e dei promotori di periodici e stucchevoli riti collettivi di scelta della parola del momento.
[Un paio di giorni dopo: voilà]
[Un paio di giorni dopo: voilà]
3 settembre 2015
Linguistica da strapazzo (39): "...l'87,3% è donna"
"Dei 38 mila insegnanti assunti finora - sottolinea il ministro - uno su due ha meno di quaranta anni e l'87,3% è donna": questa dichiarazione - che è di Stefania Giannini, quindi in realtà di una ministra - ha circolato largamente in rete, ieri.
Qui la si cita esattamente come la riferisce un articolo on-line di un importante quotidiano, dicendo della conferenza-stampa in cui è stata proferita. Per la parte rilevante, la dichiarazione si trova identica anche nel testo che accompagna una breve registrazione videomagnetica diffusa in rete dalla Rai.
Essa non compare in questo diario per via del merito né del metodo. Di ambedue le faccette della faccenda si è fatto e si fa un gran parlare. Niente avrebbe da aggiungere Apollonio, che a suo proposito si consente invece solo un paio di riflessioni nello spirito d'una modesta linguistica da strapazzo.
La parola donna ricorre infatti nella dichiarazione in modo che è pacifico nella comunicazione odierna. Può tuttavia attirare l'attenzione di perdigiorno curiosi del funzionamento della lingua.
Donna non ha qui il valore di "nella specie umana, individuo di sesso femminile". Considerando la cosa sotto tale prospettiva, dalla dichiarazione della ministra, si evince che gli individui in questione sono infatti circa trentatremila. Decisamente troppi per quel donna al singolare, quando, di individui, ne bastano appena due per avere un opportuno plurale.
Donna non ha tuttavia nemmeno il valore, definito dai lessici collettivo (con quanta ragione, qui non si discute), di espressioni come la liberazione della donna. In casi del genere, infatti, lo snodo decisivo sta nell'articolo determinativo: ...della donna, appunto. Senza articolo, impensabile. E in "...è donna" di articolo non c'è l'ombra. Anzi, se si prova a mettercelo, l'esito è improponibile.
Con funzione di predicato nominale, nelle parole di Giannini, donna ha in realtà l'aria del nome di massa. Suona come suonerebbe latte, olio d'oliva, zucchero e simili. Per quanto Apollonio ne sappia e malgrado ricorrenze che si possono considerare a questo punto comuni, né lessici né grammatiche si sono fin qui curati di registrare un valore del genere, in riferimento a donna.
Peraltro, a volere ancora pedanteggiare (il che, magari, non guasta, se tra i due lettori di Apollonio almeno il 50%, donna o uomo non importa, è pedante), la questione incrocia in modo rilevante il problema relazionale dell'accordo.
Non ci son dubbi sul fatto che l'espressione 87,3% sia singolare, quanto a categoria grammaticale del numero: un articolo maschile singolare appunto l'accompagna e diversamente non si potrebbe. Ce ne sono ancora meno che, calcolata tale percentuale in funzione delle trentottomila unità di cui è questione, l'espressione singolare l'87,3% designi, come si diceva, una pluralità. A ben vedere, anche se grammatiche e lessici non citano mai casi del genere, è in realtà l'87,3% a essere una sorta di nome collettivo, come folla, gregge, mandria, stormo. Quel tipo di nome, formalmente singolare, semanticamente plurale, si dice, per il quale la norma raccomanda un accordo verbale al singolare: è, appunto. A catena, ne sortisce un singolare, donna, anche nel predicato nominale.
La norma è tuttavia in proposito tollerante (difficile non esserlo, visto il comportamento, da sempre, dei parlanti). La ministra avesse detto L'87,3% sono donne, nessuno si sarebbe accorto del mancato accordo (o dell'accordo diversamente orientato: ma con ciò si rischia d'entrare veramente nel complesso). E il commento di Apollonio, col plurale, avrebbe avuto più debole pretesto per osservare che, in fin dei conti e volendo per un momento abbandonare la prospettiva semantico-lessicale, abbracciandone una funzionale, l'espressione "L'87,3% è donna" risulta linguisticamente meglio descritta dicendo che donna assolve alla sua funzione sintattica esattamente come farebbe un aggettivo, eventualmente composto. L'87,3% è di sesso femminile illustra in proposito il caso d'una perfetta commutabilità funzionale: senza articolo che lo qualifichi come nome, donna vale quindi esattamente ciò che qui vale di sesso femminile, che, a volerlo appunto categorizzare, è un aggettivo composto. "L'87,3% è donna" suona tuttavia contestualmente più felice, di questi tempi, di un burocratico e antiquato L'87,3% è di sesso femminile. Tra le due espressioni, nel discorso politico, non c'è partita.
Del resto, se a qualcuno pare strana l'idea che la parola donna, in certe composizioni, valga come nome di massa o, meglio, come aggettivo, pensi che in fondo si tratta non di esseri umani ma di percentuale.
L'espressione "l'87,3% è donna" è così testualmente comparabile con le indicazioni che compaiono, oggi obbligatorie, sulle confezioni degli alimenti. Tra le righe, lo si è già anticipato. "L'87,3% è donna" e "il 12% è succo d'arancia" (appunto, in ambedue i casi, con predicato nominale senza articolo) stanno nella stessa classe di costrutti.
"L'87,3% è donna": il fatto che la ministra abbia fatto menzione di questo dato dice che si sta parlando della parte comunicativamente pregevole del composto. Correlativamente, c'è da ritenere che ne sia uomo solo il 12,7%. E, rendendolo infine esplicito, si resta qui intenzionalmente ancorati alle semplici specificazioni anagrafiche. Fare diversamente, di questi tempi, rischia di suscitare un vespaio.
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